Non so chiamarti. I titoli mi vengono sempre alla fine delle cose dei processi delle storie che racconto, per immagini o per testo. Che racconto ai bambini durante un processo di educazione e autoeducazione alla bellezza e allo stupore che dura anche un intero anno scolastico. E così non so dare il titolo a questo che oggi, stamane, è solo un bisogno. Rendere pubbliche le mie tracce di questi anni. Il sito che avevo messo su e pubblicato nel 2002, opere di carta, non è mai stato abitato. Non conoscevo il linguaggio che mi consentiva di entrarci quando potevo volevo sapevo, necessitavo. Così quella casa, nata già con le tubature sgocciolanti, ha continuato a perdere acqua senza che io riuscissi a fare nulla per lei. Troppo complicato. E’ rimasta così in tutti questi anni. Una casa con le porte e le finestre aperte ma in realtà disabitata. Me ne rammarico fino a un certo punto. Forse cercavo quello che alla fine solo in questi mesi ho trovato. Uno spazio in cui abitare in questa dimensione immateriale e affascinante del web. Ma anche complicata pericolosa superficiale. Una superficie che porta all’estremo i nostri tic le nostre nevrosi le parti infantili di noi ma anche quelle serie. E’ serio infatti per me adesso il bisogno di condividere il patrimonio di pensieri e di passi compiuti in questi anni, quasi dieci ormai. Mi sembra di abitare in un luogo deserto. Quello che lancio di qua sono aerei di carta. Forse così posso chiamare il mio blog. E disegnare, o provare a farlo, traiettorie in cielo che vanno verso Nord, l’arte. Verso Sud, la scrittura. Verso Est, la famiglia e gli affetti e verso Ovest, i conseguimenti, gli obiettivi, le storie e le scoperte del mio fare e del nostro: perchè sono diversi anni ormai che immagino storie che riguardano e che si fanno, e che realizzo insieme ad altri con cui condivido una passione, due: l’amore per la bellezza la passione per la letteratura.
Al centro di questa rosa dei venti, di questo aeroporto virtuale, ci sono io e questo gesto nudo semplice vitale. Spostare di pochi centimetri e staccare da me separandomene, ciò che mi è accaduto di fare di pensare di vivere.Saranno pure tre centimetri più in là ma la tua mano che raccoglie quell’aereo caduto può decidersi di lanciarlo ancora una volta. Ne perderò allora le tracce fisiche ma non quelle per cui quell’aereo ho deciso di lanciarlo da qui. Per affidargli altri padri madri sorelle amici. Io da sola non posso dare a ciò che faccio la ragione per cui lo faccio. Sospendere incantare sciogliere il tempo e trasferirlo altrove. Su un foglio di carta tenuto forte con le loro mascelle da queste formiche che sono le parole; da questi segni di matita che sono l’eco delle mie scarpe.

martedì 30 novembre 2010

il teatro dei nostri incontri



12-15-16-17-19 novembre 2010
Biblioteca Bernardini, Lecce/ Diritti, che storie!

Appuntamento per aspiranti giganti; quattro laboratori per bambini di dieci anni.
Appuntamento per aspiranti Pollicino, un laboratorio per adulti.
Percorsi sulla Carta dei diritti dell'infanzia a cura del Presidio del libro e associazione culturale Germinazioni
Link: http://germinazioni.blogspot.com/2010/11/dalla-mia-macchina-fotografica-sono.html

giovedì 9 settembre 2010

via etere

Le mie fonti di informazione sono assai frammentate. Radio3 la mattina con la rassegna stampa dei quotidiani nazionali e poi a seguire il tgRadio e la rassegna stampa dalle pagine della cultura. Basta. Non vedo televisione, non mi piace l’informazione che diventa vetrina, visione, spettacolo per gli occhi, e se compro un quotidiano, cosa che faccio di rado, non riesco a leggere oltre una pagina e mezzo. Poi sono costretta a usarlo per la spazzatura chiudendomi gli occhi per non leggere, altrimenti non riesco a buttarlo. Così due giorni fa ho saputo, per frammenti rubati alla radio, della morte del sindaco di un comune del Cilento, uno dei luoghi più belli d’Italia, Angelo Vassallo era il suo nome. L’ho imparato a memoria collegando il suo nome a due qualità: angelo che lui le ali ce le aveva per volare alto facendo semplicemente il suo mestiere: quello di proteggere gli interessi di una comunità di persone, ma anche di una comunità di animali del mare, ho sentito che aveva fatto una battaglia per proteggere i gigli …i gigli? Forse quelle piante che vivono sulla fascia costiera, sulle dune. E vassallo l’ho imparato perché lui non lo era affatto nel suo comportamento: non era suddito. Suddito della violenza, suddito delle minacce, suddito di quella lingua criminale che sembra l’unica a essere parlata nel nostro paese. Nella stessa giornata, due giorni fa, un persona che lo ha conosciuto, diceva che questa morte è un lutto per l’intero paese. Perché quando si spegne una voce che si alza a tutela non dei suoi propri interessi ma di quelli di una comunità, o più, è una perdita di civiltà. Di dignità. La libertà, e il rispetto per le regole che nutre quella libertà, viene meno, ci viene diminuita sottratta. Non era un eroe, era solo un uomo che copriva al meglio il suo ruolo di sindaco di un piccolo paese, quale non l’ho ancora colto. E’ stato ucciso tre notti fa, mentre tornava a casa dopo aver chiuso il suo esercizio commerciale; era un ristoratore. Ma anche un pescatore. Ieri sera e stamattina l’ho sentito chiamare così, sindaco pescatore. Non voglio approfondire oltre. Mi sono arrivati già, dal cielo, questi pezzi di carta, come quelli che lanciavano dall’aereo quando ero piccola. Mi sono sufficienti già per provare lutto, pena, perdita. Per ora sufficienti per scrivere queste righe. Perché per affratellarsi non è necessario sapere molto indagare cercare.

Sempre avanti ieri sempre a Radio3 una voce diceva che quando la camorra uccide, o la n’drangheta, ancora non è chiaro chi sia stato, in realtà chi uccide è una società intera: coloro che facendo uso di cocaina finanziano tutto questo universo di prepotenza illegalità violenza. Tutti. La mano che o le mani, che fisicamente hanno ucciso sono solo l’estremità di un corpo composto da milioni di donne uomini ragazzi ragazze che facendo uso o spacciando, droga, finanziano questo mercato immenso di denaro che ha poi bisogno di essere riciclato per potersi ripulire. E quali sono le attività commerciali che sorgono più facilmente e frequentemente con rapida velocità in questi anni? Così da cittadino che passeggia perle strade mi verrebbe da rispondere, gli esercizi commerciali legati al mondo delle scommesse, ne stanno sorgendo tantissimi sfruttando questo tic questa nevrosi questa droga sì, del gioco che lo Stato stesso, per tentare un risanamento delle sua insanabile finanze ha fortemente spinto in questi ultimi quindici anni, cambiando le abitudini di tante persone. E alimentando così una enorme povertà non solo economica; che quella non è grave quanto quella culturale. E dunque siamo tanto interconnessi e tanto complesso è il sistema i sistemi in cui viviamo che anche comperare un Gratta e vinci ti rende complice di un pensiero volto all’imbarbarimento. Anche quello ti mette più vicino a uno Stato che per drenare risorse ci impoverisce culturalmente, perché ci tratta da poveracci. E noi ci facciamo trattare in questo modo. Sembra chissà cosa dobbiamo fare per ricordare un uomo e soprattutto, onorarlo, con una pratica concreta. Basterebbe non entrare al tabacchino al bar all’edicola al supermercato e non comprare il grattino della fortuna. La fortuna è per un paese essere stati coetanei di Angelo Vassallo e la sfortuna non averlo conosciuto che quando lo hanno ucciso. E questa è l’ultima cosa che ho tirato su col mio setaccio in questi tre giorni. Un suo amico, quello di prima, sempre alla radio, a tutta la città ne parla, chissà perché sempre a Radio3, diceva che è terribile che uomini amministratori come Vassallo, in prima linea nel difendere e tutelare il bene pubblico nella piccola porzione d’Italia che gli era stata affidata restino soli, che nessuno ne sappia niente. Isolati. Quando i giornali scoppiano delle cucine andate o meno a Montecarlo. Perché nessun giornalista nessun politico nessun cittadino si occupa prima si trovare queste persone di conoscerne i nomi e ciò che si ostinano a fare quando tutti gli altri o molti, avrebbero già mollato. L’ottanta per cento dei commercianti di Monza credo, pagano il pizzo; al Nord dove sembra che la mafia non ci sia. Andreotti, in un intervista che anticipavano oggi i giornali dice che Vassallo se l’è andata a cercare. Parole di inaudita inciviltà pronunciate da un uomo che ha rappresentato lo Stato negli ultimi cinquant’anni. Ecco perché pure si è evoluto così: nella perdita del rispetto delle regole democratiche. Siamo ostaggio degli interessi privati di un capo del governo che non ha mai voluto sciogliere il suo conflitto di interessi, della perdita di rispetto reciproco e dunque di cultura, che si è manifestata in questi ultimi vent’anni nel mio paese, l’Italia. Un paese democratico dicevano, dicevamo: libero. Libero oggi di chinare la testa e le spalle e il corpo alla legge della violenza. Quella che sta togliendo a questo paese le risorse economiche per essere ancora considerato un paese democratico. Se non ci sono i soldi per la benzina della macchina della polizia e per pagare gli straordinari, se non ci sono i soldi per pagare gli insegnanti e i materiali didattici, e non ci sono i soldi per assumere negli ospedali il personale necessario alla cura dei pazienti, e ci sono invece ancora i soldi per pagare i parlamentari e tutto l’esercito dei pubblici amministratori con stipendi che sono forse i più alti del mondo, non ci sono i presupposti etici, morali, per credere che lo Stato sia a fianco di chi lo serve quotidianamente e di chi dovrebbe tutelare, i suoi cittadini. Se non ci sono i soldi per assumere magistrati far funzionare le fotocopie delle procure pagare le perizie e fare andare avanti i processi, lo Stato ci ha già abbandonati. Ecco perché la mafia spara: i poliziotti sono tutti a Cinecittà. I politici da Bruno Vespa. Spegni la televisione domani, se ci vuoi pensare.

lunedì 16 agosto 2010

disseppelisco
per coincidenze dolorose, delicate, complicate
dissepellisco quanto ho scritto fra il 2007 e il 2008, su Guerra e Pace di Lev Tolstoj
mi prendo qualche giorno e mi assumo di compiere questo piccolo servizio: a me, in primo luogo. che non trovo la forza di esistere altrimenti che qui; e a Tolstoj,
Lo strappo






Caro Tolstoj,

dimmi, che ne stai facendo di Natasha, che ne stai facendo del principe Andrej? Ieri notte, era circa mezzanotte, si sono salutati; lui partiva perché costretto da sua padre a verificare il suo sentimento, e quello di lei, di lei, una ragazzina di 16 anni. Nelle parole tue Tolstoj so che qualcosa di grave di drammatico si prepara. E la pena mi mozza il fiato. A questo punto del romanzo, dopo aver seguito nella vita i personaggi principali fra cui Andrej certo, a questo punto del romanzo dopo averti seguito brava, docile, nei tuoi ragionamenti che sono di una crudeltà e di una violenza unica tanto riesci a mettere a nudo i pensieri, e solo tu in quel modo senza appello, senza se senza ma, io ho avuto ieri sera a mezzanotte una angoscia che non riusciva a stare ferma. La vedevo dilatarsi e io impotente a guardarla. Che farà di te Natasha? Della tua allegria nata da una condizione di vita favorevole, favorevole anche la tua bellezza la tua grazia la tua innata sensibilità; e di te Andrej che ne farà? Ti costringerà a espiare per sempre quella tua subalternità a tuo padre a pagarla millimetro per millimetro. Natasha, ti farà morire di crepacuore; ti farà morire in un matrimonio che solo apparentemente ti risarcirà di un dolore insensato. E che potrà fare Pierre per contrastare tutto questo; chiuso nel suo castello di dovrei e non riesco, una peggiore prigione, te lo dico io che lo so, non c’è. Perché uno che non ha nessuno che lo perseguita alla fine ha se stesso. Contemplo quella pagina dove ho chiuso il libro ieri sera a mezzanotte. La contemplo nella mia testa e so che non ho scampo. Come altre volte mi è accaduto nel libro che è la vita. E quando non ho scampo so che mi trovo davanti a una grande romanzo a una grandissima storia a una voce di narratore che non ha confronti. In quale buco nero mi sono cacciata, in quale dolore. Perché tu soffri, Tolstoj, e ci costringi a soffrire. Sei dentro la vita come un albero che ha radici immense. Nessuno ti può sradicare nemmeno i due secoli di storia che hanno decretato la tua morte. Ma quale morte, il tuo albero fatto di migliaia di pagine è lì altissimo una cupola di rami che copre interamente il cielo su cui salire come scoiattoli a cercare una tana. Come salire come formiche in cerca di una pista dolce. Come salire come bambini inconsapevoli della grandezza di quell’albero. Meglio sarebbe farsi uccelli e atterrare su di te dall’alto per poi perdersi in quella palestra vegetale di rami . Sono ferma sull’orlo di una pagina come il tuffatore sta fermo sull’orlo del trampolino. Prima di prendere la concentrazione necessaria la determinazione il coraggio la bravura pure per affrontare il tuffo pieno di figure che ne seguirà. So di stare lì ma questa volta rispetto alle poche altre in cui è accaduto, l’ultima volta è stato con Qualcuno con cui correre di David Grossman, lo scrivo lo dico lo comunico. Da questo libro non si esce uguali a come si è entrati. Può accadere pure di non uscirne affatto. Io una voce così non l’ho letta mai. Mi rimbomba forte dentro come se lui avesse la voce di un tamburo, i suoi pensieri non smettono di pulsarti dentro e si calmano solo dopo che toccano terra, ma prima devono averti attraversato per intero. Così amici, sappiate se non mi sentite più, che l’ultima traccia risale a pagina …..di Guerra e Pace dell’edizione Mondadori quella con la copertina rigida riservata ai grandi classici della letteratura. Prima del mio tuffo che compirò stasera, voglio ringraziare Agata la mia amica Agata che mi ha stimolato con un gioco bello, ha fatto partire una lettura collettiva di Guerra e Pace questa estate, lo start c’è stato all’inizio di luglio. Io ad Agata voglio bene e ancora di più adesso visto che lei è il tramite di questa irripetibile esperienza di lettura. Ieri notte pensavo al titolo, guerra e pace; siamo nel 1809, io sono nel 1809 a Pietroburgo, la battaglia di Austerliz è alle spalle e io pure ci sono stata con Andrej con Boris con Nikolaj, ma a me sembra che guerra con sia proprio o soltanto la guerra delle armi delle decine di cadaveri per terra morti per un ideale che il giorno dopo non esiste già più, a me sembra che la guerra sia la guerra che tu Tolsoj descrivi in ognuna di queste migliaia di pagine: quella di essere gettati qui dentro: in una storia in una famiglia in una struttura sociale grottesca ridicola vana vanesia, del tutto superflua e su questo superfluo noi costruiamo la nostra vita. Questa tenera formidabile gemma che buca la corteccia dell’oscurità, e il suo vuoto durissimo, più dell’acciaio; questa potenza, questo seme che protegge il mistero più grande come diresti tu, quello della nascita, lo utilizziamo per capire per giocare per allinearci, prima, con questa guerra che è l’istituzione sociale, e poi, la utilizziamo, questa potenza, per difendercene proteggerci eluderla. In entrambi i casi, un mistero sprecato. Tu ci lasci nudi sappilo. Io strappo una pagina dal tuo libro e mi copro. E nel frattempo la leggo. E’ pagina 751.

venerdì 23 novembre 2007
Verità senza peso




Quando un film mi spaventa quando sono in pena per uno dei suoi personaggi mi dico: è un film. E con quella parola magica smantello parte del mio clima interiore; dei sentimenti di paura ansia timore apprensione di cui mi sono nel frattempo caricata. Arrotolo, come si arrotola un tappeto, quel timore perché esso di fatto non occupa uno spazio, è uno spazio solo fantastico e può essere sgombrato. Così non è purtroppo quando leggo un libro. I suoi personaggi sono per me più realistici di quelli della vita che andrò a svolgere fra poche ore. I suoi personaggi sono piantati nel libro con radici enormi che non finiscono certo al mio libro a quello poggiato sul mio comodino. Si sviluppano in tutte le direzioni dello spazio entrano in migliaia, qualcuno in milioni di librerie, sosta ha sostato sosterà su milioni di scrivanie comodini sedie sdraio teli di spugna al mare. I suoi personaggi sono più vivi e vegeti di me. Ecco perché davanti a un libro piango come sulla spalla della mia amica Carmela sbarro gli occhi come li sbarro ammutolita dinanzi a un orizzonte che ha cento colori in quel momento da far ruotare. Davanti a Natasha, adesso a pagina 772 dell’edizione Mondadori io adesso sono in preda a un presentimento oscuro. Già piantato in me circa venti pagine fa dal sapiente maestro, da lui, dallo scrittore, Tolstoj. So che le accadrà qualcosa di terribile durante la battuta di caccia a cui vuole assolutamente partecipare. La giornata è bellissima, il cielo è di un azzurro terso e teso, come arco di freccia. La neve siamo a dicembre il 15, credo, è di cristallo sotto questa luce. Nikolaj, suo fratello ha appena preso accordi con il loro fidato capo caccia di cui però non ricordo il nome: un signore che si muove male e sa di muoversi male nelle case dei padroni perché solo allo spazio lui è abituato e solo a quello risponde la sua vita. Se avessi potuto far arrivare la mia voce ieri notte mentre leggevo quelle pagine oh l’avrei fatta giungere. Ma insomma Nikolaj ma perché non ascolti quello che ti grido dalla mia camera da letto sprofondata sotto il piumino e coperta fino al collo di lana? Tu ascolti invece solo quello che implacabile innamorato e severo ti dice di fare Tolstoj. Uno scrittore combattuto su tutto perché capace di vedere fino all’intimo in ognuno. Occhi così credo non ci siano mai più stati sulla terra. Occhi che rendono superflua qualunque sofisticata macchina che abbiamo costruito per vedere dentro noi stessi. Risonanza magnetica tac radiografia sono strumenti grossolani davanti a occhi come quelli. La cui capacità di dirsi la verità è davvero l’unico potentissimo strumento per avvicinare senza pietà ciò che sembra lontanissimo, e opaco. Se qualcosa avrei potuto su Nikolaj se mai avesse potuto sentirmi, nulla ma proprio nulla avrei potuto su Tolstoj ma neppure se fossi stata sua vicina di casa sua parente prossima chessò la figlia della sorella di sua madre. So che qualcosa vuole dimostrare che sta scrivendo tutte quelle migliaia di pagine indagando nell’intimo di tutti quei personaggi per qualche motivo la cui importanza supera la sua stessa vita e la mia, e quella dei personaggi che il libro descrive e custodisce uno per uno, per nome. E che il loro nome si mischia al mio; adesso quello tuo, piccola Natasha. Rispetto alla tua vita che si ripeterà uguale e diversa nel tempo moltiplicato per decina di migliaia che tu vivi e vivrai attraverso le vite dei tuoi lettori, io posso ancora entrare nella mia e cambiarla. Io sono il mio Nikolaj a cui ieri cercavo invano di parlare io sono il mio Tolstoj io sono te. Così come sono anche il conte Andrei la principessina Maria e il loro dispotico padre esaltato. Io posso, ma solo perché ho una vita sola e nessun altra e la perderò tutta quanta e non come te, come voi, posso cambiare. Uscire fuori come una matta dal solco del mio fiume perché un libro come questo per esempio che è piccolo ma pesa una tonnellata si mette di traverso. E in questo momento anche una piuma potrebbe deviare il mio corso. Il mio fiume è in questo punto e in questo momento dell’anno, un capillare d’acqua. Questa piuma viaggia da centocinquanta anni. E’ arrivata dove doveva. Ci siamo.



lunedì 3 dicembre 2007
POSTA AEREA




Ho lasciato Natasa in lacrime ieri sera. Soffocata dalla disperazione e dal desiderio. La disperazione di non sentirsi più integra dentro se stessa: il suo amore per il principe Andrej messo con le spalle al muro dal desiderio che avverte per Anatole Kuragin. La contraddizione di questo doppio sentimento in cui uno, per discutibile principio, esclude l’altro, la sottrae per sempre al tempo della sua innocenza. Magistrale sempre il modo come Tolstoj costruisce questo tempo di rivelazione. Facendocelo continuamente presagire e poi accadere nella forma più elementare. Natasa si scopre e si sente corruttibile ciò le basta per condannarsi. Una pena vederla sentirla ragionare, anzi, sdragionare. Nessun filtro nessuna barriera fra lei bellissima assai giovane e piena di desiderio di essere di vivere, di affermarsi, e lo scaltro Anatole, che rappresenta e gioca il ruolo dell’uomo bello e libero: anticonvenzionale. Un uomo il cui valore non è il rispetto della società e le sue regole ma l’amore di se stesso; l’appagamento del suo desiderio. Ma Anatole incarna l’adattamento opportunista della società alle regole che essa volta per volta si impone. Come pure sua sorella la bella Helene. Sono figure che vivono pienamente la loro natura sociale incarnando della società il lato nascosto. Incarnando delle regole che tengono insieme gli individui l’aspetto puramente convenzionale. Sono pura forma, la sostanza è tutt’altro. Nulla di diverso da quanto accade adesso. I copioni si ripetono. Solo Natasa sembra essere sguarnita di pensiero. Sconta l’educazione di una donna appartenente a una nobiltà di campagna e che sembra inadeguata a far fronte alla vita che l’aspetta. Tolstoj scrive ogni sera in me qualcosa che mi turba e che ritrovo poi ogni mattina al mio risveglio come un conto aperto come un pensiero che ha bisogno di chiudersi. La mamma di Natasa ripetutamente ci ha manifestato la sua apprensione per questo fidanzamento con il principe Andrej. Vi trova qualcosa di innaturale. Certo la differenza dell’età ma più di tutte la distanza immensa di maturazione fra un uomo duramente acculturato capace di sostenere la solitudine e il dolore e l’ingenuità la semplicità l’immediatezza come un colpo in una canna di pistola sempre carica, che è Natasa. Una ragazza che ha bisogno per la sua età per la mancanza di prospettive a cui la sua società la condanna di continui stimoli continue emozioni dentro il cerchio di vita a lei consentito. La casa le passeggiate a cavallo le visite ai vicini i balli nelle città. Se le scrivessi una lettera tu, Tolstoj, gliela recapiteresti? Sarebbe un bel colpo di scena, che stasera mentre Sonia e Natasa discutono perché Sonia ha trovato la lettera di Anatole, che arrivasse un domestico con una lettera assai diversa da quella che lei è abituata a ricevere perché è scritta a macchina perché porta un francobollo e un timbro e un indirizzo dietro di una persona che lei non conosce che vive a Lecce e dov’è.



Cara Natasa
Avevo ventitre anni o ventiquattro quando Catia la mia amica mi consigliò di leggere Dona Flor e i suoi due mariti. Erano gli anni in cui si discuteva quanto come e se ci potessero essere relazioni a tre. Capita sai qualche volta di essere innamorati, meglio, di sentirsi innamorati di due persone diverse. E sono diverse veramente. Uno è dolce affettuoso tenero; l’altro rompe gli argini non spetta le risposte non tollera le distanze. Uno ti dà tempo l’altro te lo ruba come un predatore. Uno ti fa crescere l’altro ti sottrae agli altri. Ma quello impaziente mette nel legame quel desiderio di te di cui ognuno ha bisogno per sentirsi vivo. Catia mi fece leggere donna Flor per abituarmi a tollerare questo bisogno questo desiderio di avere più vite, più biografie. Per accettare che non siamo una persona sola che non siamo fatti di un unico pezzo. Che abbiamo bisogno di sicurezza e abbiamo bisogno di lanciarci nel non conosciuto. E donna Flor mi insegnò a non distruggere un legame con l’altro e Catia a gioire ogni volta che un battito d’ali atterrava sul mio cuore. Ma se tu potessi leggere donna Flor non saresti più Natasa e ti dirò non ci sarebbe neanche Guerra e Pace il grande romanzo dentro cui vivi da oltre 100 anni e io da quasi quattro mesi. Le storie raccontano gli anni e le culture e le persone spesso contemporanei a chi le ha scritte. Spesso il romanzo è il modo che una persona si dà per tenere insieme cose tanto diverse, una città un fatto caratteri molto dissimili destini a ventaglio che però convergono in un unico punto a un certo momento. Dentro il libro convergono anche le vite e i tempi del lettore. Convergono senza poter fra loro comunicare. Tu puoi comunicare con quelli che stanno con te nel libro e spero che lo farai e lo faranno. Io posso immaginare di comunicare con te. Voglio dirti non mettere i sentimenti l’uno contro l’altro. Ascolta, mi ha adesso telefonato il mio amico Franco che cos’è il telefono oh uno strumento incredibile che se vivessi adesso ti consentirebbe di sentire il principe Andrej in tutti i momenti anche in quelli meno opportuni. E la tua voce si perderebbe in un inessenziale. Perché è vero che adesso una donna ha prospettive di crescita di affermazione di sé e una libertà mai accaduta prima ma è vero che noi scontiamo un vuoto una mancanza di sentimenti e anche un livellamento dell’esperienza che ci ha resi poveri. Alla fine della lettera mi tocca ringraziarti perché il tuo turbamento e la tua sofferenza e la vergogna di te ma anche la felicità di te rompe come una diga che non ce la fa a contenere più il suo invaso e invade tutto. Mostrami ancora ciò che la tua vita custodisce come uno scrigno che qualcuno con destrezza con malinconia con un sentimento rapinoso e furtivo sta aprendo. E’ Tolstoj vestito da Anatole.




Martedì 11 dicembre 2007
Il bacio del lettore




Da moltissimi giorni ormai Natasha si è addormentata sfinita sopra la lettera che le rivela la fragilità del suo amore per il principe Andrei. L’ho lasciata in quella posizione da tantissimi giorni. Il lettore ha questa prerogativa che è solo delle fate, dei maghi: operare sospensioni tenere in un incantesimo le vite raccontate nei libri. Potrebbe dormire per chissà quanti anni ancora Natasha e non svegliarsi mai più. E non sapere mai cosa sarà del suo amore per Anatole che sposta tutto il mondo conosciuto in un precario e forse già perduto equilibrio. In cui anche lei andrà a perdere il suo. Non ti ho svegliata amica mia in tutti questi giorni forse per lasciarti ancora un po’ tranquilla nel tuo sonno profondo. Stasera non più tardi di stasera farò come il principe che trova la bella addormentata nel bosco. Peccato che lei svegliandosi gli dirà: no, non ti amo.



20 dicembre 2007
Il principe Andrej, la tosse e il barone Arezzo. Stanotte a Ragusa Ibla.




A Ragusa Ibla lui muore. Questo romanzo che ho cominciato a leggere a luglio dell’anno scorso sta per concludersi, ho aperto proprio ieri sera l’ultimo libro, il quarto. Mosca sta bruciando, Pierre è stato risparmiato dalla fucilazione per lo sguardo carico di umanità che è riuscito a stabilire con un generale francese ma la descrizione della fucilazione sono pagine di orrore e di pietà per tutti, vinti e vincitori. Ha incontrato da poco il suo compagno di priginione, quel meraviglioso ritratto d’uomo che è il piccolo falco. Natasha ha rivisto il principe Andrei e lo veglia senza risparmiarsi. Stamattina presto mentre io non riuscivo a dormire per la tosse che mi sta tanto provando in questi giorni, la sorella del principe, Maria, ha deciso di mettersi in viaggio e di raggiungere il convoglio dei Rostov insieme ai quali viaggia suo fratello. Sono pagine di una forza immensa, i sentimenti sono scale ripide che Tolstoj scende e scende e dici, si fermerà, mentre lo segui e piangi. Andrej sta morendo si sta staccando dal desiderio della vita dal desiderio dell’amore per Natasha perché un amore più grande e più stabile, così ci dice Tolstoj ha compreso in questa sua condizione così a ridosso della morte. L’amore per lei e la tenerezza che ne prova è solo una scheggia uno sfrido un truciolo direbbe lui, sfuggito alla lavorazione di quell’amore più grande che non comprendiamo e non avvertiamo perché la paura della morte ci fa da barriera, da muro, e quell’amore sta oltre. Mi accomiato anch’io così da lui. Da lui quando ero piccolo e pieno di tenerezza da lui che si chiede perché la sorella si disperi pensando a suo figlio orfano a sette anni, se è Dio stesso che pensa a ognuno di noi. Adesso questo non è più un libro ma un breviario, un libro di preghiere. A Ragusa Ibla davanti a un frigorifero che mi ricorda quello che stava a casa della nonna di Sergio, un vecchio Zoppas anni 50 che però a me sembra una riedizione moderna di quello, io sciolgo le vele del principe Andrej e di Natasha e di Maria e pure di Sonia, schiacciata la vita da un debito che non si può estinguere perché ogni giorno aumenta a dismisura. In questo guscio di casa dentro questa conchiglia spiraliforme così com’è piena di scale ripide, eleganti, di pietra pece dalle belle striature marroni e ogni gradino inserita una margherita dai petali rosso scuro, di questa casa conchiglia io sono il paguro. Me ne sto sola adesso, la tosse di stanotte mi ha impedito di uscire prendere freddo. E questa solitudine so che mi guarisce più di ogni medicina. So e adesso con una forza no, con un evidenza che non ho mai avvertito prima, che ho bisogno di isolarmi. Ho bisogno di stare solo sola, fra le cose, con esse. Cosa anch’io. Un bisogno vitale che se non soddisfo mi fa stare a disagio insicura incerta piagnucolosa. In questo periodo ho molto dato, molto molto fatto uscire da me: preoccupazione tensione paura e soprattutto sono stata sempre con tante persone. Tanti bambini tante aspettative. Lasciatemi stare un po’ per me. Mi nutro di qualcosa che io stessa fabbrico quando sto sola. Forse la capacità di tenere ferma con mano ferma con polso fermo un pensiero e costruirgli intorno un abito con cui presentarmelo. Così vestito il pensiero mi fa da spalla da punto d’appoggio e io non cado non cado mai. Ho bisogno del silenzio per fare entrare il pensiero l’attimo di commozione di pena in un processo di trasformazione da cui ne esce e io con lui, fortissimo. Forse perché trasformato abitato indossato può essere comunicato messo in comune. E a quel punto l’amore che me ne viene dagli altri mi aiuta a sentirmi forte. Ma oh Teresa, se anche tutto questo finisse qui, se anche tu avessi abitato il tuo pensiero per te soltanto, vestita e svestita davanti allo specchio che poi tutti dimentica, sarebbe stato bello lo stesso. Ho compreso qualcosa. Sono ricca di una parola un pensiero una frase compiuta, un frammento di storia di un altro che si è incrociata chissà come e perché adesso qui con me. Lontano da casa. Vicina a quel castello di Donna Fugata che abbiamo visitato ieri. Le stanze dove ha abitato nella seconda metà dell’Ottocento il barone Corrado Arezzo, un uomo appassionato di botanica, senatore della Repubblica Italiana, il cui giardino contiene specie rare fra cui la ormai quasi estinta Palma felix, quella che ha il tronco incurvato per consentire alle feluche in sosta sul Nilo di attraccare, e quel grattacielo vegetale, immenso albero di ficus elastico, che arrivò col piroscafo duecento anni nel porto di Catania, direttamente dall’Australia. Sulle sue foglie il barone incollava un francobollo un indirizzo e lo spediva ai suoi amici in Europa per invitarli qualche settimana nell’agro di Ragusa; sulla strada, una successione di basse colline di pascolo e di carrubi, che congiunge quella a Comiso e dove lui arricchì la dimora estiva di famiglia, con un prospetto ingenuamente regale. Quattro ricci ornano il suo stemma, sono animali coraggiosi e intuitivi ma nulla possono ormai contro le visite guidate e gratuite, pretese dalle scuole, 50 studenti che affollano le piccole stanze decorate di fine carta da parati e innumerevoli poltroncine dalla tappezzeria uguale a quella. Quei quattro ricci nulla possono contro il desiderio di Alvaro di sollevare il cordone pesante, rosso broccato, che separa l’area visitabile da quella riservata. La vita, un meccanismo enorme complesso e gigantesco travolge lo stemma del barone Corrado, non il suo albero di cartoline mai spedite. Aspettano che io ne stacchi una e te la invii. Sul francobollo la sagoma della Sicilia, questa terra che mi ricorda con la sua povertà, la modestia la semplicità delle abitudini di vita, soprattutto nelle vie subito dopo il centro e i centri subito dopo quello segnalato sulle guide, la mia infanzia. Qui ancora sopravvive l’amore per i figli la famiglia e il timore di Dio. Non so se questo abbia a che fare con la mafia, forse, ma anche con altre direttrici della storia che sono la bellezza delle tradizioni dei luoghi la loro pulizia e il sorriso di ospitalità che te ne viene. Sta a me, mentre spedisco la carlina inumidendone i margini gommati di questo francobollo, tenere a mente quello che io posso lasciare come traccia di me in questi giorni, oltre alla tosse all’ultimo libro, il quarto, di Guerra e Pace e alla fatica da smaltire. Forse ho già cominciato a guarire.





19 marzo 2008, Ragusa Ibla. Sicilia meridionale.

sabato 26 giugno 2010

partiamo.
Lascio le mie cose, il computer, i fogli bianchi, gli indirizzi di posta eletronica, e il blog vediamo se riesco a vivere senza. Mi assento da loro e loro da me. Penso che sia necessario, per entrambi. Diventare ciò per cui siamo nati. Una partita che si gioca sempre fuori dai ruoli che ci siamo cuciti addosso per difenderci da ciò da cui nessuno, nemmeno dio può difenderci. La vita stessa. La nostra unica, sola madre.

giovedì 24 giugno 2010

della Grande Enciclopedia dei Baci mi mancano la effe la erre la pi. Ce li avevo, forse li ho prestati....Forse invece, regalati.

da recapitare in via Piave 27

BACI DA ME


Metto i miei baci in fila, come se dovessi contarli.

Come se dovessi infilarli in una collana.

Come se dovessi cercare quello fra loro più imperfetto:

quello storto

o con la sbavatura di rossetto

o bagnaticcio

o con l’herpes

o dato con la paura di sbagliare

o di essere scoperta

o peggio di tutto:

l’ultimo.

Ecco dopo che li ho messi in fila

e li passo in rassegna,

come un generale bambino

i suoi soldatini di piombo

li guardo uno per uno;

da lontano possono sembrarci

uguali

ma nessuno

e te lo giuro

nessuno che ho mai dato

è stato uguale agli altri.

Per peso Per intensità Per verità

Per sentimento.


Ognuno ha avuto dentro una miscela differente:

una porzione di questo tre di quello cinque di quell’altro

pensa,

fino a cento.

Alcuni,

pochi

sono stati dati al cento per cento di purezza.

Di quella sostanza, sola,

che rende altamente infiammabile la nostra storia

bruciandola in un attimo, per intero.



24 giugno 2010, San Giovanni

venerdì 18 giugno 2010

13447

tredicimilaquattrocentoquarantasette, oggi alle 16 e 33.
Il mio cuore smette di battere a questo numero.
Il contapersone sul fondo di questo spazio è in realtà il mio cuore stesso.
Non lo so più rimettere. Domenica chiederò a Valentina di aiutarmi. Quella piccola assenza in fondo alla pagina è un buco da cui tutto questo anno di scritture rischia di uscirsene per sempre. Questo luogo è per me uno spazio in cui sostare; come sedersi su una panchina e parlare con qualcuno. Senza quel numero sotto la pagina io mi sento di parlare da sola. E allora si che ammotulisco.

lunedì 10 maggio 2010

ogni ora è la mia ora

ieri a messa padre Gianni, un padre comboniano, ci chiedeva durante l'omelia cosa nella pratica religiosa, nell'istituzione Chiesa, ci è di inciampo per vivere fluentemente la nostra religiosità. Io ho risposto la confessione. Perchè, mi ha chiesto di argomentare padre Gianni, perchè davanti a me spesso ho sacerdoti che non hanno quella libertà di pensiero con cui vorrei confrontarmi, ma mi oppongono un muro di parole svuotate di senso. Non è importante quello che poi lui mi ha risposto, un pò non l'ho capito un pò credo non mi abbia veramente risposto, è importante che quella messa del pomeriggio alle 19 sia viva; quel padre cerca di portare dio vicino a ognuno di noi, di accorciare le distanze. Tornando a casa mi venivano in mente le parole dell'amico Franco Maiorano, sempre lui, prega, pregate per la conversione dei preti. La risposta più corretta da dare a padre Gianni sarebbe stata piuttosto, sono i preti a creare inciampo rallentamento incredulità formule prive di senso. E se comincio a scrivere di Chiesa è perchè Chiesa sono anch'io. Perchè tutto abbiamo delegato agli altri, e su sempre meno cose esercitiamo alleniamo cerchiamo la sapienza. Come si fa a ricominciare  daccapo a quarantanove anni quattro mesi e sedici giorni? Perchè ho questo secondo qui, questo minuto qui, questo spazio qui: un nido dove vengo a portare il cibo a me stessa, e dunque sono ricca di qualcosa. Da qualche parte uno deve pure cominciare.

sabato 8 maggio 2010

imparare a fare miracoli: istruzioni per duri di spirito

c'è un uomo grande tutto nudo che si vede di profilo, ha la barba e sta con le braccia sollevate in alto. Le mani tengono strette un martello. All'altezza dei suoi fianchi ci sta un'incudine. E' la vecchia pubblicità, anni '60, dei biscotti Plasmon. La davano al Carosello, uno spazio di pubblicità, pochi minuti per cinque schetch, la prima popolare scuola di arte moderna, che noi, io e Rosanna, vedevamo prima di andare a dormire; chissà se la vedeva a casa degli zii anche mio fratello Pino. Ecco quell'uomo lì, l'icona dell'uomo prima del Tempo no, meglio, quella dell'uomo alla soglia della Storia, io immagino che batta i secondi dentro l'orologio di plastica giallino pipì. Me lo sono portato dalla stanza di Alvaro qui, nello studio. Sta nascosto dietro il portapenne-appunti, ma il suo rumore, la sua incessante edificazione del Tempo, non dà tregua. Ti stana. Quell'uomo sta là dentro, in quegli ingranaggi certo non più meccanici a dispetto delle innovazioni elettroniche. Fabbrica i secondi ad uno ad uno, battendo e piegando il ferro, il grande cancello del cielo, fino al momento in cui girerà sui suoi cardini per farmi passare. Mio fratello l'ha varcato. Ma ognuno varca il suo di cancello. Ognuno ha il suo uomo Plasmon che lo fabbrica. Ehi tu, provo a chiamarlo a distrarlo: non hai sete, fame, voglia di una merendina? Un wisky magari. Risponde il battito sempre uguale che va più piano del mio orologio sepolto nel petto. Sessanta battiti al secondo contro i miei cento, sì lo so che non va bene, mi prendo la pillola. Non mi piace l'orologio di Alvaro, va addirittura più piano di me che conto a modo mio il tempo accelerandolo stressandolo, stimolandolo a decollare, verso dove? Preferirei il fruscio della sabbia in caduta verticale da una camera all'altra della clessidra; oppure l'ombra che si sposta, e quella rumore non ne fa, sullo gnomone. Oppure i numeri astratti a quattro cifre che appaiono in alto a destra, sul display del mio cellulare. Ma questo uomo Plasmon, no. Che succede se adesso lo prendo e gli tolgo la pila? Lui smette di costruire il cancello, il mio. Che dici sorellina: quello lo costruisce il tuo muscolo rosso annidato nel petto. Mi vengono spesso in mente in questo periodo le parole del mio amico sacerdote Franco Maiorano, un uomo luminoso e pieno di fede nel senso che la testimonia con le sue azioni quotidiane non nel senso che la predica, parole che mi disse tempo fa. Se un giorno ti diranno che sono morto sappi Teresa che è stato contro la mia volontà. Che non ero d'accordo. Eppure nessuno come lui si sta preparando in questi anni a questo appuntamento. Alcuni anni fa, tre, ha regalato tutti i suoi libri, tutti, alla nostra Biblioteca pubblica, Germinazioni, dove adesso sta a disposizione tutto il suo fondo: Franco Maiorano. Ha individuato fra i suoi amici una persona, un gentile e saggio signore di cui si fida, di prendersi cura di sua sorella signorina, una modestissima ingenua anima di ottant'anni, qualora a lui dovesse accadere qualcosa. Ha compiuto nella sua vita tutto quello che un uomo può compiere dentro i vincoli i limiti del suo destino umano, della sua scelta di vita. Ha vissuto fino in fondo e con il massimo della coerenza il suo sacerdozio. E da alcuni anni non smette di combattere le sue battaglie intellettuali per riformare la Chiesa: ha scritto e scrive al papa, al suo vescovo ma non gli rispondono lo trattano come un vecchio bizzarro, scrive e interviene sui giornali quando lo pubblicano, nello spazio riservato alle lettere al Direttore, perchè sente la necessità morale di intervenire sulle grandi questioni che la Chiesa ha davanti per poter risorgere da questa tragica contemporaneità in cui essa è diventata l'istituzione di se stessa; la prigione di se stessa. Lui lotta perchè i sacerdoti siano liberi di scegliere se sposarsi oppure no, lotta per il sacerdozio delle donne, lotta perchè i fedeli concelebrino la Messa con il sacerdote, perchè la confessione sia un gesto che la persona viva innanzi tutto in un rapporto diretto con Dio, perchè i sacramenti siano aperti a tutti coloro che vivono con coerenza la loro vita perchè nella coerenza c'è il principio della giustizia che è il valore massimo a cui ognuno deve ispirare la sua vita. Ha educato generazioni di giovani, perchè ha insegnato latino e italiano nella scuola superiore, si è occupato di tossicodipendenti per molti anni e attualmente raccoglie fra le moltissime persone con cui scambia e raccorda la sua vita risorse, a suore e preti di cui ha conoscenza personale occupati in difficili missioni in Brasile e in Africa centrale. Ha tenuto per molti anni una rivista parocchiale dove ho avuto la possibilità di scrivere -di pensare ad alta voce- anche io; ha scritto numerosi piccoli libri su diversi temi che ha sempre presentato e poi regalato a chi era in sala. Ha usato, usa, pienamente la sua vita semza sprecare nemmeno un secondo di quelli che fabbrichi tu uomo Plasmon, perchè Franco anche se è vecchio -un anziano asciutto e dallo sguardo vivissimo e celeste come il cielo dopo l'alba- piccolino e claudicante perchè ha una protesi all'anca e una serie di bypass al cuore, è assai assai più forte di te. Franco ha preso la sua vita e ne ha fatto in tutti i momenti un servizio. A se stesso in primo luogo cercando di mantenersi in buona salute. La sua intelligenza l'ha spremuta e la spreme ancora, e la libertà, vero dono di Dio, la usa continuamente per rinnovare la sua fede, perchè solo nell'esercizio libero del pensiero c'è la sola possibilità di incontrarti Dio. E lui è con Dio ogni istante. Ecco perchè caro uomo Plasmon, non ti vede proprio. Lui sta sulla Terra perchè Dio lo ha appoggiato per farci un regalo, per farmi un regalo. Quello di una sua telefonata: come stai Franco? Bene Teresa, i preti stanno sempre bene. Eh la prossima volta che rinasco mi faccio prete anch'io. O che bello! Ti auguro di farti suora e di sposarti se sarà quello che vorrai. Hai speranza per la chiesa, allora? Io credo nei miracoli.
Ma i miracoli come tu stesso mi hai insegnato li fa per il 99, 5% l'uomo. Tu li fai Franco, non l'uomo Plasmon, quello fa la storia che noi dobbiamo affrontare e cambiare.

lunedì 12 aprile 2010

catalogo

Ho trovato sul mio tavolo, sta da qualche tempo poggiato qui per una serie di circostanze, un’immagine che racconta l’atterraggio di un pensiero in noi. Cadono a volte come fiocchi di neve, tanto che non te ne accorgi nemmeno se non per il brivido di freddo, di ansia, di inquietudine che ne segue, e non sai perché; cadono come aeroplani di carta, li lancia la mano di qualcuno che tu non riesci più a sentire forse perché ti sei tanto abituato alla sua voce: forse tuo figlio o tuo marito o tua moglie o tua madre. A volte i pensieri cadono da una altezza talmente grande e a una tale velocità che sono veri meteoriti e ti lasciano senza parole per mesi e per anni. Generano delle fratture immense che solo l’opera di qualcuno insieme a te, può riparare. Ci sono invece quei pensieri, come chiodi, che un martello invisibile spinge e spinge dentro, quelli che alla fine producono piccole crepe. Sono i pensieri più pericolosi. Perché quella sembra una frattura da niente e invece nel tempo diventano fessure che ti trapassano da parte a parte separando per sempre in due parti, tre cinque, ciò che prima si teneva insieme. Ci sono poi i pensieri che ti arrivano lanciati da una corda che ha alla sua estremità un piccolo peso che consente loro di poggiarsi stabilmente in te. Una piccola misura di piombo che consente l’ammaraggio. Chi te lo lancia questo pensiero, e da dove viene e poi dove va, è il mistero più grande di ogni altro. Sono le cose che fai e che ti fanno dire a distanza di anni: come ho fatto a farlo? Sono le cose, le immagini le parole che hai segnato tu, hai scritto tu, hai tenuto tu in mano per la prima volta, ne sei stata la madre e il padre, ma che non ti appartengono: hai dovuto lasciare andare per farle vivere. Costa dolore lasciare andare. Sembra che stai per perdere tutto, la tua vita stessa, la tua identità, i tuoi sogni. Ma non è vero. La vita è vita nello scambio. E i sogni esistono solo se li sai nominare. Se tutto sta fermo perché con le mani stringi e trattieni e in quel trattenere trovi la tua sola ragion d’essere, niente accade mentre intorno a te il mondo le persone care, e quelle che non lo sono affatto, vanno e disegnano i loro confini. E un giorno ti svegli e stai dentro il confine di qualcun altro e ti hanno dato una carta d’identità una casa una famiglia e una storia in cui stare. E questo è il pensiero peggiore di tutti: quello preso in prestito da qualcun altro.

martedì 30 marzo 2010

Se per un mistero a noi ignoto, tutta la sofferenza vissuta potesse nella morte fiorire altrove, in un campo di papaveri, il 28 alle 9.30 sono sbocciati nell'aldilà.
a Pino Ciulli, 26 ottobre 1959 - 28 marzo 2010

giovedì 18 marzo 2010

la gabbia di chi


c'è un canarino sulla strada che percorriamo, nei giorni di grande bravura, io e Alvaro quando lo accompagno a scuola. Negli altri giorni che già male cominciano, andiamo in macchina. In questi giorni, in questo periodo, lui o lei? Canta sempre. Canta mentre le macchine gli passano veloci di fronte, senza udirlo. Intorno a lui che sta appeso in una gabbietta sul muro esterno di una abitazione al piano stradale, tutto è normalmente brutto. Una normale, brutta, periferia. Di quelle che ci sono a cloni, in valanghe di luoghi. Eppure lui canta. O lei. Perchè. Non può farne a meno. Lui, lei, non canta per essere udito da me, che ci passo solo nei giorni belli, nè dalle macchine che gli passano accanto senza neppure vederlo e per giunta intossicandolo di idrocarburi, canta perchè non ne può fare a meno. In questa necessità io vedo una somiglianza con la mia vita. Dolorosa inaccessibile inesplicabile più di tanto. Perché è il suo canto in gabbia e in quella sua solitudine e con quella periferia brutta intorno a lui che mi consente di “vederlo” . Anche i passeri e le cincie e il pettirosso cantano. Ma chissà perché il loro canto non si apre in me lo stesso varco che quello di quel canarino compie. Come una lama lui mi apre a una verità. C’è qualcosa c’è qualcuno a cui il suo canto, pur in quelle difficili ostili insensate condizioni, risponde. Si leva. E’ in lui o fuori? E’ una domanda inconcludente. C’è qualcosa che lo sopravanza, che lo sorpassa e lo include,  a cui risponde. O che invece interroga. O con cui forse semplicemente dialoga. Lui dice Buongiorno, eccomi qui, sono vivo, perché non può farne a meno. Mettendo a disposizione per dirlo l’unico strumento che ha a sua disposizione. L’unico dono. Sembra una fesseria ma prova a rifarlo tu il suo canto, non ci riuscirai mai tale è la sua bravura. Una creatura così piccola, potrebbe starmi nel palmo, con un dono così straordinario. Un dono di cui non si vergogna, che non giudica che non lo mette in conflitto che non censura. Io lo vedo in gabbia, la sua voce è libera.

mercoledì 17 marzo 2010

Da Catiopoli


eccoti Catia! alla fine mi hai trovata. Alla fine di una lunga mattinata passata a passeggiare costeggiando il mare e  fermandosi sotto il primo vero sole ufficiale di una Primavera che qui, solo da due giorni, si avverte con incredulità. Cara Catia noi ci conosciamo da venticinque anni e tu sei per me una doccia, un acquazzone di sentimenti. Agli incontri con te, se anche mi hai mai sfiorato il pensiero di venirmene con l'ombrello, non l'ho mai aperto. E' così bello starsene sotto tutta questa tua nuvola che scroscia: amicizia affetto lacrime pensieri, mentre le scarpe si muovono e con loro la mente. Tu mi hai insegnato un giorno, uno di questi venticinque anni, che ti rispecchi in quel modo di funzionare della mente studiato dal filosofo epistemologo, Karl Popper. Che ci sono persone che pensano meglio se stanno impegnati col loro corpo in un'azione; come camminare. O nuotare, o guardare la chioma dell' albicocco.Ci siamo salutate tre ore fa. Ma chi ti conosce sa che la camminata nei sentimenti, quelli che tu conosci uno per uno e li sai chiamare col loro esatto nome, continua dopo che te ne vai. Sarà per quell'aria di familiarità così grande che si stabilisce con la propria emotività; perchè un dono tu fai a tutti, proprio a tutti. Non giudichi non metti nessuno, forse solo Berlusconi, in una scatoletta che poi lasci chiusa in uno scaffale. Tutti i tuoi cari gli amici i parenti i compagni di avventure politiche come le vecchie amiche di scuola ma anche i tuoi pazienti, tutti vaghiamo liberi nel tuo mondo. E la libertà come tu dicesti al tuo matrimonio, nell'omelia che un prete illuminato a te e a Gustavo lasciò dire, è ciò che riceviamo in cambio, dall'amore.

venerdì 5 marzo 2010

perchè scrivo

domenica 28 febbraio 2010

lo scrittore dei fantasmi

Cita Marleau Ponty su Cezanne. E cita Marx, L’ideologia tedesca: un fantasma si aggira per l’Europa. Oltre 800 volte ricorre questo termine, fantasma, nell’Ideologia tedesca. Tanto che a un certo punto dice: “fantasma è una parola politica”. Nessuno di noi che ascolta Beppe Sebaste chiede chiarimenti su questo oscuro passaggio. Non tutto si raccoglie non tutto si intende chiarire. Lo scrittore seduto di fronte a noi, sulla sedia rossa, vera identità, icona, del Fondo Verri di Lecce dove si svolge l’incontro con lo scrittore organizzato da Mauro Marino dal suo Presidio del libro, comincia leggendo un breve racconto dal suo ultimo libro, Oggetti smarriti. E’ la fotografia di una città, quale?, il quindici di agosto. Lui seduto su una panchina, Panchine è anche il titolo ricorrente di un suo libro precedente, la guarda come la guarderebbe un filosofo, un filosofo fenomenologo. Uno che non da alcuna cosa per scontata ma la osserva come se la vedesse per la prima volta e in quel guardare, per conoscerla, chiama a sé i suoi sempre incompiuti saperi. Li confluisce dirotta su quell’oggetto, quella cosa, quella persona; quel paesaggio. Tutto di sé in quello sguardo sull’oggetto a cui taglia la storia precedente e ignora la successiva, per concentrasi esclusivamente in questo istante: in questo me e questo tu che ci fa vivere perchè ci fa conoscere. Nessuno di noi, una ventina di persone credo, qualcuno di più, gli ha chiesto sulla sua formazione; ma che lui abbia una formazione filosofica per me, a distanza di due giorni, è proprio evidente. Anch’io ho studiato filosofia, a Bari, con Ferruccio vattelapesca, assistente di Giuseppe Semerari, nel 1980. Ci fecero leggere Husserl e si nominava spesso Enzo Paci, il filosofo italiano che più ha contribuito a questi studi sul guardare e sulla relazione di conoscenza reciproca che quel guardare produce. Perché il passaggio più affascinante della fenomenologia è che l’oggetto pure ti guarda. Anche Beppe Sebaste ha studiato fenomenologia, non me lo ha detto nessuno, mi azzardo a dirlo io, perché gli indizi sono troppi e troppo vicini i nostri anni. Lui è nato nel 1959, a Parma. E ha studiato certamente lì o a Milano, la città di Enzo Paci se mi ricordo. Mi fa credere anche che lui abbia una formazione filosofica il fatto che si occupi di traduzioni, di una lista di nomi che ho scorso mi resta l’unico che conosco, Jean Jacques Rousseau. Il ‘700, è il secolo a cui si ispira negli ultimi anni, da quando è occupato a scrivere un romanzo, una storia di pura invenzione che ha a che fare con i fantasmi. Dei suoi libri precedenti, di quelli già pubblicati, cita a un certo punto con particolare affezione, HP l’ultimo autista di Lady Diana. Ha un tono, un modo sbrigativo che dice senza dirlo che se un libro, fra tutti quelli che ha scritto ci dovesse consigliare di leggere, sarebbe quello. E invece esplicitamente ci consiglia un libro di Philipp Kerr però non si ricorda il titolo e anche La cupola, The Doom, di Stephen King. Un libro che descrive passo passo, centimetro dopo centimetro, come si costituisce una organizzazione mafiosa. Per noi due, tre, quattro, sì cinque volte istruttivo, è il libro specchio di noi stessi, della nostra Italia. E poi cita, me lo appunto sul quaderno nella penombra del Fondo Verri e chissà se riesco a decodificare adesso la mia scrittura, ecco sì, Kafka on the beach, l’autore porta un nome giapponese. Poi il passo del suo dire inciampa su Giorgio Messori, e ci fermiamo. Lui abbassa un po’ di più la testa; si fa intimo, più spoglio nelle parole: Viaggio in un paesaggio terrestre, dieci ritratti di luoghi, è un libro che consiglierebbe a tutte le scuole. Ai maestri, agli alunni. Giorgio Messori? E chi è, il nome qualcosa mi dice e mi muove ma appena appena; troppo poco per smuovere qualcosa sia pure dal fondo melmoso della memoria. Qualcosa che non si aggrappa a niente se non adesso a un titolo di libro da andare a cercare come in altri tempi hanno cercato una pepita d’oro. Ci saluta Beppe Sebaste leggendo un altro racconto, la sua voce si avvolge a spirale a chiudere a proteggere a isolare per sempre la storia da se stesso e da noi che la ascoltiamo. La voce si fa casa e si chiude intorno al racconto accorato, intimo, emozionato, di un incontro d’amore. Una prostituta russa a cui regalò una giornata al mare. Lei, bellissima salta sulle onde e si volta verso di lui e di noi col suo costume di fortuna. E’ la prima volta che ascolto una storia che ha il chiaro intento di non appartenermi, di non esistere, di scomparire appena letta. Così dice il vero, quando scrive di non averla scritta.

giovedì 25 febbraio 2010

nuovo ancoraggio



http://www.anobii.com/teresaciulli/books

mercoledì 24 febbraio 2010


aveva fretta. Eppure ci ha messo nove anni per arrivare da qualche parte. Certo dove non avrebbe mai immaginato. Fra le mani di due gentilissime, nobili, persone. Oggi stai, forse magari sarebbe bello, oltre una porta di legno con la maniglia in ottone, al secondo piano di una casa degli anni sessanta nel centro di Bari. Una fila di piante sta, allineata, di fianco a quella porta di fronte a un ascensore di legno: un ascensore che probabilmente ha la mia età. Un sacchetto della spazzatura, ieri, in attesa fra le piante, raccontava di pasti leggeri e di un fretta nell'uscire di casa. Anche dietro quella porta vanno di corsa. Più veloci di te, lumachina. Ma io non sono in gara, mi risponde da laggiù, dal pozzo del cuore dove sei rimasta appesa nonostante il tuo trasloco, ieri mattina. Nonostante le ruote che mi hai messo nel 2001 e il manubrio e la strada che mi hai disegnata, io sono rimasta ferma, il motore spento. Ho aspettato che tu saltassi su di me, come hai fatto in questi giorni, per raccontare una storia che merita di essere ricordata.

giovedì 11 febbraio 2010

martedì 9 febbraio 2010

Biblioteche: vietato vietare l’ingresso

Antonella Agnoli è una maniaca. Si aggira fra i libri e le biblioteche e i bibliotecari e i lettori cercando di accordare attraverso l’esercizio dei dettagli, delle migliaia dei minimi comuni denominatori che li uniscono, tutte queste categorie in un’unica esperienza: la lettura. Un’esperienza che trascina tutti i sensi verso un unico obiettivo: partire per un viaggio stando il più fermi possibile. Una bizzarria, una stravaganza, un’utopia, mannò, stiamo parlando della realtà più frequentata abitata e praticata, dall’invenzione della stampa alla metà del 1400 ad oggi, su larga scala. Sono già sei secoli di viaggi fatti stando seduti in tutte le sedie le poltrone i prati i pavimenti le stuoie i tappeti, i letti possibili. Dalle più elementari e disastrate e sporche sedute, ai più ricchi e puliti. Antonella, ti chiamo per nome ora, cura questi viaggi a basso consumo di carboidrati e a bassa emissione di anidride carbonica. E’ una specie di tour operator su scala nazionale e internazione. Della sua consulenza si avvalgono biblioteche e comuni, qui e all’estero, che intendono strutturare o ristrutturare, proporre o fare un restyling al loro pubblico servizio dedicato alla cura alla catalogazione ma soprattutto alla promozione della lettura, del libro. Pubblico servizio dedicato a migliorare il livello culturale no, multiculturale direi, dei loro abitanti, delle comunità di cui sono i promotori gli animatori gli informatori. Almeno per la parte, che non è poca, e per il ruolo, non secondario, che un pubblico amministratore gioca o potrebbe giocare nella vita quotidiana della sua città, dei suoi abitanti. Un ruolo tanto più significativo tanto apparentemente disatteso, trascurato, da chi lo rappresenta. Antonella, che ha lavorato per anni in Biblioteca a Pesaro, credo la sua città natale, dove progettò anni fa la nuova biblioteca, San Giovanni, gira il mondo ormai da libera professionista a visitare le biblioteche, le piazze del sapere come le chiama lei. Perché lo fa? Per continuare a nutrire il suo occhio, superallenato ai dettagli, a cogliere con sempre più precisione scientifica il pulviscolo dei motivi delle ragioni delle scelte che fanno funzionare una Biblioteca a pieno regime e a pieno titolo. Qualche giorno fa la Provincia di Lecce ha offerto gratuitamente per due giorni presso la Biblioteca provinciale, a bibliotecari, studenti, associazioni culturali, semplici curiosi, la possibilità di ascoltarla. Un regalo. Un regalo che però la Provincia non ha fatto a se stessa: non è stata presente se non alla fine, per i saluti, il suo assessore alla cultura, la dottoressa Manca. Ha mancato, eh già, un’unica occasione: vedere toccare gustare ascoltare sentire, attraverso il maniacale controllo degli infiniti aspetti che rendono una biblioteca un luogo vivo, e non un museo, cosa sono i libri nei luoghi, nei comuni, nelle città del mondo che li hanno presi sul serio. Non si scappa: chi prende sul serio i libri prende sul serio i cittadini che attraverso quelli migliorano si evolvono e accedono al loro diritto più grande: la cittadinanza.
Una Biblioteca non è il numero dei libri che possiede: è le scelte manageriali e di marketing insieme al suo sistema di valori, connessi fra loro per renderli fruibili; per toglierli dall’oblio della catalogazione dal silenzio degli scaffali: per renderli visibili. Perché la mano che li prende, da sola, senza il complicato passaggio dall’archivio, prende in mano non un libro ma il suo diritto all’istruzione all’autoformazione allo sviluppo di sé, e soprattutto al piacere al benessere al desiderio e allo svago che ogni libro, anche il peggiore, accende o almeno evoca. Antonella Agnoli fa le pulci a ogni aspetto, per quanto minuscolo apparentemente secondario o di contorno del contorno, che fà si che un luogo non, si chiami, ma funzioni come Biblioteca. Cerca indizi ovunque si promuovono le merci, studia col suo occhio da classificatrice di farfalle le strategie dei centri commerciali, luoghi che facilitano le persone nel compiere una scelta , luoghi che favoriscono la nostra disponibilità a individuare trovare incontrare. Osserva studia analizza ciò che ci rende disponibili a entrare in un viaggio: stando seduti. Nelle Biblioteche pubbliche il viaggio è gratuito. Nemmeno un centesimo a meno di non gradire un caffè il cui odore si sta sprigionando dal Bar strategicamente di fianco alla sala lettura. Con il vantaggio, ad Amsterdam, che la tazzina la puoi poggiare su quella stupefacente poltrona la cui foto, insieme a decine e decine, e decine di altre, Antonella ha mostrato nelle due mattine dedicate all’esplorazione di questo paese di libri; una poltrona ricavata da un tappeto. Ci stava sprofondato uno, gambe in su, che ho scolpito nella testa: è Il Lettore. Un Re nel suo silenzio, saldato fortemente attraverso quel libro a se stesso. Perché ad Amsterdam uno si sceglie il tipo di poltrona sedia, o colore di moquette, che più gli si addice o si addice al libro che ha scelto da un basso scaffale molto colorato, per una alchimia impossibile da ripetere: scelto il suo altrove la sua deriva temporale, la sua temporanea identità. Tutto è possibile anzi, tutto è auspicabile che si faccia e accada nella Biblioteca per una sola buona ragione, disporre un libro a un irripetibile incontro. Come accade poi che in quel libro incontri te stesso, questo è il mistero della scrittura; della Letteratura. Questo mistero ogni Biblioteca custodisce: per svelarlo non per tenerselo per sé. La porta di ogni biblioteca, grande piccola aperta chiusa, di vetro o di legno, scorrevole o a spinta, apre a una stanza segreta. Decine di orecchie di bocche di vite umane si sono incontrare su quelle pagine quelle righe quelle parole quelle storie senza saperlo. Fino a poco tempo fa; poi Antonella ha cominciato a censire i luoghi le sedie le poltrone gli scaffali i lettori i bibliotecari i funzionari gli orari i banconi o l’assenza dei banconi, il tipo di ruote e il tipo di moquette che più si addicono a queste piramidi di incontri. E’ un libro? Che dici. E’ tutto tranne quello.

9 febbraio 2010

domenica 7 febbraio 2010

dare fiato


link:
http://germinazioni.blogspot.com/2010/02/dare-fiato.html




ieri, sabato 6.



quattro giorni fa, il 3.

Rosa Parks: biografia scritta da me

Rosa Mc Culey Parks, è nata in un paese dell’Alabama nel 1913, il 4 febbraio, tre giorni fa.
Due anni prima di mio padre. Lei è nata nera, mio padre, bianco. In uno stato del sud dell’America, dove, nonostante l'uguaglianza sancita nel 1865 dalla vittoria dell’esercito del nord e dell’ovest contro quello del sud, la discriminazione razziale, già dal 1880, era pienamente ripartita. I neri aveva diritto a loro scuole a loro uffici e dovevano utilizzare i mezzi pubblici con numerose restrizioni. Fino alla metà degli anni ‘50, quando la Corte Costituzionale comincia a dichiarare anticostituzionale quanto accade negli stati a sud del paese. I neri avevano anche molte difficoltà ad accedere al voto politico. Le loro condizioni economiche erano precarie, indigenti, così come le loro condizioni di vita, di abitazione; e i loro lavori, i più umili. In questo contesto si formano negli Stati Uniti delle associazioni di gente di colore che intende, mettendosi insieme, difendere i propri diritti, e diventare più incisivi nelle richieste di pari dignità di vita, e di opportunità. Il marito di Rosa, Raymond, che lei sposa nel 1932, a diciannove anni, un barbiere, è membro attivo della National Association for the Advancement of the Coloured People NAACP, sezione di Montgomery, dove la coppia vive. Presto anche Rosa entra a far parte di questo movimento. Prestano servizio volontario per offrire ai loro concittadini o alle famiglie, assistenza e supporto perché possano affrontare e denunciare situazioni di maltrattamento, di lavoro in condizioni di schiavitù, di assassinio e stupro. Per molti anni il lavoro di fiancheggiamento aggiunge sofferenza, pena e umiliazioni a quelle che patiscono Rosa stessa e i suoi familiari. Niente sembra muoversi. Eppure Rosa, in una intervista dichiara che non si trattava in quegli anni per loro di affermare un potere contro l’altro quanto di dimostrare ai bianchi della classe dirigente la loro volontà a esistere come cittadini. Si trattava di resistere. Quando l’1 dicembre del 1955, lei salì alle 18 di pomeriggio sull’autobus Cleveland Avenue, dopo una giornata di lavoro presso il negozio dove lavorava come sarta, Rosa semplicemente è Rosa: gli anni passati ad allenarsi cittadina, a opporsi alla violenza, nel suo dna le chiacchiere notturne col marito, le umiliazioni giornaliere, e tutto annoda stretto alla stanchezza che prova quel giorno. Quando l’autista del bus, James Blake, vedendo un bianco in piedi, chiede al gruppo dei neri seduti nella prima fila utile del loro settore, ad alzarsi, tutti, perché un bianco non può avere di fianco un nero, le due donne sull’altro lato del corridoio, e l’uomo a fianco a lei, si alzano. Lei no. Anzi si sposta nella sedia vicino al finestrino, occupata prima dall’uomo. L’autista le chiede se ha sentito il suo ordine di alzarsi. No, I’m tired of being treated like a second class citizens. Risponde. No, sono stanca di essere trattata come una cittadina di seconda classe. L’autista ferma il bus e la informa che deve chiamare la polizia per arrestarla e lei, a sua volta: You can do that, lo puoi fare. Sarà arrestata e liberata sotto cauzione quella sera stessa dal marito. Per 100 dollari, uno stipendio di un mese. Il 5 dicembre il Tribunale la dichiara colpevole e la condanna a un ulteriore pagamento.. Quel giorno stesso comincia a Montgomery, guidata dal ventiseienne Martin Luther King, a cui è stata da poco affidata una parrocchia in quella città, la più nota manifestazione non violenta, e la più lunga, e la più faticosa, che coinvolgerà e sconvolgerà le abitudini, le pratiche di 45 mila persone di colore che per 381 giorni non saliranno più sui mezzi pubblici. Un film del 1990, La lunga strada verso casa, di Richard Pearce, racconta ciò che accade a Montgomery in quel lunghissimo anno. Il danno economico fu così grave che alla fine la compagnia dei trasporti cedette e la Corte Costituzionale dichiarò anticostituzionale la separazione razziale sui mezzi di trasporto. Rosa Parks divenne un’icona del movimento per i diritti civili. Era il 1956, io sarei nata di lì a quattro anni, a Bari, in Puglia, in Italia. Paese in quegli anni palcoscenico di una vasta emigrazione interna. Ci vollero però moltissimi anni prima che il pregiudizio razziale in America fosse superato. Rosa, che non aveva figli, non ne ho trovato traccia in nessuna biografia, perse il marito nel 1977 e dieci anni dopo, nel 1988, fondò un istituto per accompagnare i giovani di colore alle carriere dirigenziali, il Raymond e Rosa Parks Foundation. Il presidente Clinton la insignì di due medaglie: nel 1995, quella della libertà, e nel 1999, quella del Congresso. E’ stata l’unica donna a essere esposta nella sala del Capitolo di Washington alla sua morte, avvenuta nel 2005, il 24 di ottobre. E la seconda persona di colore. José Saramago, le ha dedicato sul suo blog una finestra, a novembre del 2008, quando Obama vinse le elezioni presidenziali. Una vittoria che ha i suoi piedi, che trova le sue radici, che si innesta in quel primo dicembre del 1955; quando Rosa standosene seduta, cambiò la storia del suo paese e scrisse un capitolo che lei non ha letto e non conosce. Le sedie sono oggetti che noi a secondo l’uso che ne facciamo, come sempre, li trasformiamo in spazi felici, o infelici. In isole sulle terraferma. In navicelle spaziali al terzo piano. In nazione, anche.

la sedia di Rosa

giovedì 4 febbraio 2010

la voce della verità


la sera, dopo aver concluso il nostro laboratorio a Trinitapoli, dopo aver portato a termine il viaggio sulla pagina che José Saramago ha dedicato nel suo blog a Rosa Parks, ora nel libro edito dalla Boringhieri, Il Quaderno, solo allora, prima di spegnere la luce di quel lume a luce rossa che avevo alle mie spalle, nel divano letto dove ho dormito, il centro di lettura GlobeGlotter ha al suo interno una stanza per gli ospiti, solo allora ho capito che il mio viaggio, che ora è il nostro, era consistito nel dare un involucro, una corazza, di carta e di pagine cucite con le memorie e con le conoscenze, alla voce di Rosa. Quello era stato l'incipit del mio viaggio: aver ascoltato per puro caso la sua voce, quella di Rosa Parks, in una bellissima trasmissione a lei dedicata su Radio3, Uomini e profeti. E quell'emozione, immensa, provata nell'essermi imbattuta in una entità così fragile così caduca come la voce umana, che pure accade dal secolo scorso di rimanere impigliata da qualche parte, quell'entità, quel pesciolino d'oro rimasto nella rete degli immensi archivi delle spaventose biblioteche, quell'emozione di essermene imbattuta, perchè il labirinto della documentazione è talmente vasto che difficile è trovare, mi ha lanciato una corda da così lontano che non ho potuto tenere le mani in tasca: l'ho stretta. Il libro di artista che ho prodotto e poi completato a Trinitapoli insieme ad Amedea, Rosa, Enzo, Marta, Antonia, Titti, Elena, Maria Pia, Gabriella, Maria, Melody, Marìlia, Francesco, Maria Riccarda, Grazia, Vittoria, Mino, Pasquale, Assunta, Ada e per un segmento con Dora, altro non è stato che solidificare con una colata di inchiostro la corazza delle memorie mie alle vostre, e delle conoscenze mie con le vostre, tessute insieme e cucite ora in una forma, il libro, che senza di quello l'inedito il nuovo che l'arte manifesta, si smarrirebbe. Una corazza per proteggere e lasciarvi il dono per me più grande di tutti, la voce di Rosa. Devi attraversare adesso, oggi, nella Biblioteca di GlobeGlotter dove il libro sta, in Via Staffa 4 a Trinitapoli se vuoi sentirli prima chiama 0883 634071, la sua nuvola di storie, entrarci a capofitto senza temere di perderti; nessuno di noi si è perduto anzi, io addirittura mi sono trovata, e mettere le mani in quelle tasche perchè la sua storia ne contiene altre, e percorrerlo, sfogliando le sue pagine panciute per arrivare a prendere laggiù, sul fondo, quella scheggia piena di luce che brilla. Non provare ad afferrarla con le mani, solo con l'orecchio puoi avvertire per il suo breve minuto e mezzo di ascolto un brivido di luce. Non si possiede Rosa: si vive.

martedì 2 febbraio 2010

una globeglotter



www.globeglotter.it

domenica 31 gennaio 2010

ritrovarsi:qui

due finestre stamattina aperte davanti a me. Quella di fronte al mio computer e quella che mi ha spalancato Agata ieri, d'improvviso. Uno sbattere di porte, come prima di un temporale. Agata entra nella mia giornata e mi dice, mi scrive, una mail asciutta come la povertà e dolce come il profumo della rosa. Attraverso la sua finestra vedo me che scrivo qualcosa che emoziona che si apre una strada che prima non c’era e su quella strada altri vanno. Vengono e vanno in silenzio spesso. Togliendosi le scarpe. C’è un silenzio qui che non è solo il mio, è quello dei numerosi ospiti di questo luogo che invece di parlare e parlare e parlare, grande e vero e unico sport nazionale, stanno in ascolto. Mi cercano mentre cerco me stessa sulla pagina bianca. Si cercano mentre mi cerco. Anche dio mi cerca. Lui non sulla pagina bianca; non stamattina. Lui dalla finestra che mi sta di fronte. Il cielo nel frattempo si è fatto chiaro e lui, dio, si sbraccia si sgola e sta cambiando colore alle nuvole continuamente per farsi notare, per richiamare la mia attenzione. E io lo ascolto sì lo guardo pure, ma è con Agata che sto. Solo se chiami anche lei, se pronunci il suo nome, sono disposta ad ammettere che quelle nuvole lunghe quelle nuvole lente, anzi immobili, definitivamente ferme in cielo, solo l’abbaiare di un cane lontano mi induce a sentire che il tempo esiste e sta scorrendo, sono per Agata e per me.

mercoledì 20 gennaio 2010

do re mi

in questi giorni, andando a Bari in macchina, vedi fra Brindisi e Ostuni, sui fili elettrici molti piccoli uccelli. A tratti sono accostati fitti fitti fra di loro, come crome e biscrome; a tratti isolati come minime, semiminime. A volte i fili elettrici corrono paralleli, e così hai modo di vedere la partitura di note scritta in cielo dagli uccelli. E allora mi immagino dio intento a suonare ciò che vede in quell'istante. Solo in quello. Per afferrare il pensiero l'arte la poesia, la verità, ci vuole una velocità che male si coniuga con la lentezza necessaria alla comprensione. A meno che non parli una lingua, come la musica, dove il contenitore è il contenuto. Lì capisci senza capire niente: il linguaggio dei santi, dei mistici e degli uccelli.

martedì 19 gennaio 2010

un anonimo riparo




Pochi giorni fa un grande butta butta di cose vecchie. Vecchi libri che mia sorella ha tolto da casa di mia madre e mi ha sistemato in grandi buste. Senso di scoramento, come farò, dove metterli? Sergio come sempre ha avviato il processo e io mi sono allineata alla fine, per l'ultimo e più devastante tocco: ok buttiamo, regaliamo, smistiamo. Alla fine di due ore feroci, di tutti quei libri poco era rimasto e un foglio per terra, caduto vicino al pianoforte di mia madre. Lo raccolgo. Lo leggo. Fulminante bellezza giustizia verità di quelle poche righe di un paragrafo; un capitolo di nome Marta. Il susperstite, unico, assoluto, di una mareggiata di immense proporzioni. Quella della Storia, con la esse maiuscola. Telefono a Sergio per sapere se aveva già buttato i molti libri velocemente scartati per il riciclaggio della carta. La risposta è inappellabile: non saprò mai di chi è questa pagina che mi ripara dalla pioggia. Quella che segue alle grandi mareggiate.

mercoledì 13 gennaio 2010

i miei regali


Ti regalo i territori le città del mondo i paesi.
La speranza che tu possa un giorno visitarli.
Ti regalo le pagine dell’ultimo libro che ho letto: l’indimenticabile Anna Karenina.
Ti regalo le note che non sono stata capace di suonare né di aiutare i miei figli a conoscere.
Ti regalo le bandiere: quelle che stanno sulle navi; quelle che stanno chiuse nei cassetti. Scoperte che non faremo mai o che faremo. Stamattina, adesso, se solo siamo capaci di resistere alla pena alla sconfitta all’errore, al malumore di un altro che ci viene addosso per cancellarci, per portarci via come il vento porta la foglia lontano dal suo albero.
Ma tu resisti opponiti stai fermo. Nel tuo errore nella tua malattia nella tua incapacità.
E leggi e scrivi le lettere che compongono questa pagina. L’unica e l’ultima che ti è concessa. Per ora per oggi. Come se fosse il gambo di una rosa: l’ultima che ti è concessa tenere in mano. Anche quella ti regalo adesso. Le spine che fanno saggia la terra che il cielo non conosce. Lui si limita della rosa a vedere la sua coppa di petali e non sa che la bellezza poggia su di un rovo. Come accade che pur sbagliando esistiamo e continuiamo a vivere e a cercare un minuto di esattezza un secondo di equilibrio irripetibile, di armonia fra il cielo la terra me la storia, e tutto quanto una valanga, che non mi è venuto più bene in questo mondo. Sono lontana adesso chilometri e chilometri dal momento di grazia di conoscenza di felicità che ha suggellato tante volte nelle mattine, negli anni, la mia presenza al mondo. Chilometri e chilometri d’esilio da quei giorni. Eppure un atomo di me di allora sta qui a me davanti: furioso irascibile violento e mi urla scappa. Scappa da questa vergogna che mi ha preso da questo lutto da questa elemosina di attenzioni. Scappa: dove gli chiedo adesso? Nel punto dove massimo è il dolore massima la sconfitta massima la distanza da me stessa. Solo da lì puoi cominciare a scioglierti dal mortale abbraccio.

sabato 9 gennaio 2010

per Clara


cara Clara, a te che sei la levatrice di bambini, l'ostetrica che aiuta a nascere a se stessi, nel tuo lavoro di maestra, trentennale, hai spinto almeno cinque generazioni di bambini a credere in se stessi; perchè ognuno di noi almeno un dono lo possiede e tu come un cane da tartufo sai esattamente dove trovarlo e come dissepellirlo, a te allora, amica cara, dedico la prima spedizione di questa cartolina: Per tutti giorni, tranne Natale. Oggi dunque, va bene.
ti abbraccio Clara con moltissimo affetto.
Teresa

per tutti i giorni tranne Natale

C’è una parola da proteggere con la sciarpa di lana, con i guanti, il cappotto, la calzamaglia. C’è una parola da proteggere schermandola con il nostro corpo, abbracciandola per non lasciarla da sola, mai. Una parola da chiudere a chiave per non farle perdere il senso, una parola da usare poco per non sciuparla, una parola da nascondere in un luogo di cui dimenticarsi pure come ritrovarlo. Una parola da mettere fra le pagine di un libro amato come un fiore che ci fu regalato da una mano indimenticabile in un giorno che non può tornare più. Una parola da cui stare alla larga, da cui girare lontano perché pure guardarla la fa appassire. Eppure noi la usiamo senza ritegno, pudore, misura: vergogna. Che peccato mi viene da dire pensare, credere. Così tutto abbiamo svuotato e nessuna cosa più è bella nel giorno di Natale. E in nessun altro giorno. Perché Natale è tutti i giorni dell’anno tranne oggi dove non è più lo spirito, la parte immateriale di ciascuno di noi a manifestarsi, ma è la materia, la parte peggiore e quella mortale. Perché quella si può comprare e invece l’anima no.
Qui metto lo spazio per la parola magica misteriosa, che apre le porte del cielo, ma non la scrivo, non la dico non la pronuncio: per farti un regalo.

21 dicembre 2009