Non so chiamarti. I titoli mi vengono sempre alla fine delle cose dei processi delle storie che racconto, per immagini o per testo. Che racconto ai bambini durante un processo di educazione e autoeducazione alla bellezza e allo stupore che dura anche un intero anno scolastico. E così non so dare il titolo a questo che oggi, stamane, è solo un bisogno. Rendere pubbliche le mie tracce di questi anni. Il sito che avevo messo su e pubblicato nel 2002, opere di carta, non è mai stato abitato. Non conoscevo il linguaggio che mi consentiva di entrarci quando potevo volevo sapevo, necessitavo. Così quella casa, nata già con le tubature sgocciolanti, ha continuato a perdere acqua senza che io riuscissi a fare nulla per lei. Troppo complicato. E’ rimasta così in tutti questi anni. Una casa con le porte e le finestre aperte ma in realtà disabitata. Me ne rammarico fino a un certo punto. Forse cercavo quello che alla fine solo in questi mesi ho trovato. Uno spazio in cui abitare in questa dimensione immateriale e affascinante del web. Ma anche complicata pericolosa superficiale. Una superficie che porta all’estremo i nostri tic le nostre nevrosi le parti infantili di noi ma anche quelle serie. E’ serio infatti per me adesso il bisogno di condividere il patrimonio di pensieri e di passi compiuti in questi anni, quasi dieci ormai. Mi sembra di abitare in un luogo deserto. Quello che lancio di qua sono aerei di carta. Forse così posso chiamare il mio blog. E disegnare, o provare a farlo, traiettorie in cielo che vanno verso Nord, l’arte. Verso Sud, la scrittura. Verso Est, la famiglia e gli affetti e verso Ovest, i conseguimenti, gli obiettivi, le storie e le scoperte del mio fare e del nostro: perchè sono diversi anni ormai che immagino storie che riguardano e che si fanno, e che realizzo insieme ad altri con cui condivido una passione, due: l’amore per la bellezza la passione per la letteratura.
Al centro di questa rosa dei venti, di questo aeroporto virtuale, ci sono io e questo gesto nudo semplice vitale. Spostare di pochi centimetri e staccare da me separandomene, ciò che mi è accaduto di fare di pensare di vivere.Saranno pure tre centimetri più in là ma la tua mano che raccoglie quell’aereo caduto può decidersi di lanciarlo ancora una volta. Ne perderò allora le tracce fisiche ma non quelle per cui quell’aereo ho deciso di lanciarlo da qui. Per affidargli altri padri madri sorelle amici. Io da sola non posso dare a ciò che faccio la ragione per cui lo faccio. Sospendere incantare sciogliere il tempo e trasferirlo altrove. Su un foglio di carta tenuto forte con le loro mascelle da queste formiche che sono le parole; da questi segni di matita che sono l’eco delle mie scarpe.

lunedì 16 agosto 2010

disseppelisco
per coincidenze dolorose, delicate, complicate
dissepellisco quanto ho scritto fra il 2007 e il 2008, su Guerra e Pace di Lev Tolstoj
mi prendo qualche giorno e mi assumo di compiere questo piccolo servizio: a me, in primo luogo. che non trovo la forza di esistere altrimenti che qui; e a Tolstoj,
Lo strappo






Caro Tolstoj,

dimmi, che ne stai facendo di Natasha, che ne stai facendo del principe Andrej? Ieri notte, era circa mezzanotte, si sono salutati; lui partiva perché costretto da sua padre a verificare il suo sentimento, e quello di lei, di lei, una ragazzina di 16 anni. Nelle parole tue Tolstoj so che qualcosa di grave di drammatico si prepara. E la pena mi mozza il fiato. A questo punto del romanzo, dopo aver seguito nella vita i personaggi principali fra cui Andrej certo, a questo punto del romanzo dopo averti seguito brava, docile, nei tuoi ragionamenti che sono di una crudeltà e di una violenza unica tanto riesci a mettere a nudo i pensieri, e solo tu in quel modo senza appello, senza se senza ma, io ho avuto ieri sera a mezzanotte una angoscia che non riusciva a stare ferma. La vedevo dilatarsi e io impotente a guardarla. Che farà di te Natasha? Della tua allegria nata da una condizione di vita favorevole, favorevole anche la tua bellezza la tua grazia la tua innata sensibilità; e di te Andrej che ne farà? Ti costringerà a espiare per sempre quella tua subalternità a tuo padre a pagarla millimetro per millimetro. Natasha, ti farà morire di crepacuore; ti farà morire in un matrimonio che solo apparentemente ti risarcirà di un dolore insensato. E che potrà fare Pierre per contrastare tutto questo; chiuso nel suo castello di dovrei e non riesco, una peggiore prigione, te lo dico io che lo so, non c’è. Perché uno che non ha nessuno che lo perseguita alla fine ha se stesso. Contemplo quella pagina dove ho chiuso il libro ieri sera a mezzanotte. La contemplo nella mia testa e so che non ho scampo. Come altre volte mi è accaduto nel libro che è la vita. E quando non ho scampo so che mi trovo davanti a una grande romanzo a una grandissima storia a una voce di narratore che non ha confronti. In quale buco nero mi sono cacciata, in quale dolore. Perché tu soffri, Tolstoj, e ci costringi a soffrire. Sei dentro la vita come un albero che ha radici immense. Nessuno ti può sradicare nemmeno i due secoli di storia che hanno decretato la tua morte. Ma quale morte, il tuo albero fatto di migliaia di pagine è lì altissimo una cupola di rami che copre interamente il cielo su cui salire come scoiattoli a cercare una tana. Come salire come formiche in cerca di una pista dolce. Come salire come bambini inconsapevoli della grandezza di quell’albero. Meglio sarebbe farsi uccelli e atterrare su di te dall’alto per poi perdersi in quella palestra vegetale di rami . Sono ferma sull’orlo di una pagina come il tuffatore sta fermo sull’orlo del trampolino. Prima di prendere la concentrazione necessaria la determinazione il coraggio la bravura pure per affrontare il tuffo pieno di figure che ne seguirà. So di stare lì ma questa volta rispetto alle poche altre in cui è accaduto, l’ultima volta è stato con Qualcuno con cui correre di David Grossman, lo scrivo lo dico lo comunico. Da questo libro non si esce uguali a come si è entrati. Può accadere pure di non uscirne affatto. Io una voce così non l’ho letta mai. Mi rimbomba forte dentro come se lui avesse la voce di un tamburo, i suoi pensieri non smettono di pulsarti dentro e si calmano solo dopo che toccano terra, ma prima devono averti attraversato per intero. Così amici, sappiate se non mi sentite più, che l’ultima traccia risale a pagina …..di Guerra e Pace dell’edizione Mondadori quella con la copertina rigida riservata ai grandi classici della letteratura. Prima del mio tuffo che compirò stasera, voglio ringraziare Agata la mia amica Agata che mi ha stimolato con un gioco bello, ha fatto partire una lettura collettiva di Guerra e Pace questa estate, lo start c’è stato all’inizio di luglio. Io ad Agata voglio bene e ancora di più adesso visto che lei è il tramite di questa irripetibile esperienza di lettura. Ieri notte pensavo al titolo, guerra e pace; siamo nel 1809, io sono nel 1809 a Pietroburgo, la battaglia di Austerliz è alle spalle e io pure ci sono stata con Andrej con Boris con Nikolaj, ma a me sembra che guerra con sia proprio o soltanto la guerra delle armi delle decine di cadaveri per terra morti per un ideale che il giorno dopo non esiste già più, a me sembra che la guerra sia la guerra che tu Tolsoj descrivi in ognuna di queste migliaia di pagine: quella di essere gettati qui dentro: in una storia in una famiglia in una struttura sociale grottesca ridicola vana vanesia, del tutto superflua e su questo superfluo noi costruiamo la nostra vita. Questa tenera formidabile gemma che buca la corteccia dell’oscurità, e il suo vuoto durissimo, più dell’acciaio; questa potenza, questo seme che protegge il mistero più grande come diresti tu, quello della nascita, lo utilizziamo per capire per giocare per allinearci, prima, con questa guerra che è l’istituzione sociale, e poi, la utilizziamo, questa potenza, per difendercene proteggerci eluderla. In entrambi i casi, un mistero sprecato. Tu ci lasci nudi sappilo. Io strappo una pagina dal tuo libro e mi copro. E nel frattempo la leggo. E’ pagina 751.

venerdì 23 novembre 2007
Verità senza peso




Quando un film mi spaventa quando sono in pena per uno dei suoi personaggi mi dico: è un film. E con quella parola magica smantello parte del mio clima interiore; dei sentimenti di paura ansia timore apprensione di cui mi sono nel frattempo caricata. Arrotolo, come si arrotola un tappeto, quel timore perché esso di fatto non occupa uno spazio, è uno spazio solo fantastico e può essere sgombrato. Così non è purtroppo quando leggo un libro. I suoi personaggi sono per me più realistici di quelli della vita che andrò a svolgere fra poche ore. I suoi personaggi sono piantati nel libro con radici enormi che non finiscono certo al mio libro a quello poggiato sul mio comodino. Si sviluppano in tutte le direzioni dello spazio entrano in migliaia, qualcuno in milioni di librerie, sosta ha sostato sosterà su milioni di scrivanie comodini sedie sdraio teli di spugna al mare. I suoi personaggi sono più vivi e vegeti di me. Ecco perché davanti a un libro piango come sulla spalla della mia amica Carmela sbarro gli occhi come li sbarro ammutolita dinanzi a un orizzonte che ha cento colori in quel momento da far ruotare. Davanti a Natasha, adesso a pagina 772 dell’edizione Mondadori io adesso sono in preda a un presentimento oscuro. Già piantato in me circa venti pagine fa dal sapiente maestro, da lui, dallo scrittore, Tolstoj. So che le accadrà qualcosa di terribile durante la battuta di caccia a cui vuole assolutamente partecipare. La giornata è bellissima, il cielo è di un azzurro terso e teso, come arco di freccia. La neve siamo a dicembre il 15, credo, è di cristallo sotto questa luce. Nikolaj, suo fratello ha appena preso accordi con il loro fidato capo caccia di cui però non ricordo il nome: un signore che si muove male e sa di muoversi male nelle case dei padroni perché solo allo spazio lui è abituato e solo a quello risponde la sua vita. Se avessi potuto far arrivare la mia voce ieri notte mentre leggevo quelle pagine oh l’avrei fatta giungere. Ma insomma Nikolaj ma perché non ascolti quello che ti grido dalla mia camera da letto sprofondata sotto il piumino e coperta fino al collo di lana? Tu ascolti invece solo quello che implacabile innamorato e severo ti dice di fare Tolstoj. Uno scrittore combattuto su tutto perché capace di vedere fino all’intimo in ognuno. Occhi così credo non ci siano mai più stati sulla terra. Occhi che rendono superflua qualunque sofisticata macchina che abbiamo costruito per vedere dentro noi stessi. Risonanza magnetica tac radiografia sono strumenti grossolani davanti a occhi come quelli. La cui capacità di dirsi la verità è davvero l’unico potentissimo strumento per avvicinare senza pietà ciò che sembra lontanissimo, e opaco. Se qualcosa avrei potuto su Nikolaj se mai avesse potuto sentirmi, nulla ma proprio nulla avrei potuto su Tolstoj ma neppure se fossi stata sua vicina di casa sua parente prossima chessò la figlia della sorella di sua madre. So che qualcosa vuole dimostrare che sta scrivendo tutte quelle migliaia di pagine indagando nell’intimo di tutti quei personaggi per qualche motivo la cui importanza supera la sua stessa vita e la mia, e quella dei personaggi che il libro descrive e custodisce uno per uno, per nome. E che il loro nome si mischia al mio; adesso quello tuo, piccola Natasha. Rispetto alla tua vita che si ripeterà uguale e diversa nel tempo moltiplicato per decina di migliaia che tu vivi e vivrai attraverso le vite dei tuoi lettori, io posso ancora entrare nella mia e cambiarla. Io sono il mio Nikolaj a cui ieri cercavo invano di parlare io sono il mio Tolstoj io sono te. Così come sono anche il conte Andrei la principessina Maria e il loro dispotico padre esaltato. Io posso, ma solo perché ho una vita sola e nessun altra e la perderò tutta quanta e non come te, come voi, posso cambiare. Uscire fuori come una matta dal solco del mio fiume perché un libro come questo per esempio che è piccolo ma pesa una tonnellata si mette di traverso. E in questo momento anche una piuma potrebbe deviare il mio corso. Il mio fiume è in questo punto e in questo momento dell’anno, un capillare d’acqua. Questa piuma viaggia da centocinquanta anni. E’ arrivata dove doveva. Ci siamo.



lunedì 3 dicembre 2007
POSTA AEREA




Ho lasciato Natasa in lacrime ieri sera. Soffocata dalla disperazione e dal desiderio. La disperazione di non sentirsi più integra dentro se stessa: il suo amore per il principe Andrej messo con le spalle al muro dal desiderio che avverte per Anatole Kuragin. La contraddizione di questo doppio sentimento in cui uno, per discutibile principio, esclude l’altro, la sottrae per sempre al tempo della sua innocenza. Magistrale sempre il modo come Tolstoj costruisce questo tempo di rivelazione. Facendocelo continuamente presagire e poi accadere nella forma più elementare. Natasa si scopre e si sente corruttibile ciò le basta per condannarsi. Una pena vederla sentirla ragionare, anzi, sdragionare. Nessun filtro nessuna barriera fra lei bellissima assai giovane e piena di desiderio di essere di vivere, di affermarsi, e lo scaltro Anatole, che rappresenta e gioca il ruolo dell’uomo bello e libero: anticonvenzionale. Un uomo il cui valore non è il rispetto della società e le sue regole ma l’amore di se stesso; l’appagamento del suo desiderio. Ma Anatole incarna l’adattamento opportunista della società alle regole che essa volta per volta si impone. Come pure sua sorella la bella Helene. Sono figure che vivono pienamente la loro natura sociale incarnando della società il lato nascosto. Incarnando delle regole che tengono insieme gli individui l’aspetto puramente convenzionale. Sono pura forma, la sostanza è tutt’altro. Nulla di diverso da quanto accade adesso. I copioni si ripetono. Solo Natasa sembra essere sguarnita di pensiero. Sconta l’educazione di una donna appartenente a una nobiltà di campagna e che sembra inadeguata a far fronte alla vita che l’aspetta. Tolstoj scrive ogni sera in me qualcosa che mi turba e che ritrovo poi ogni mattina al mio risveglio come un conto aperto come un pensiero che ha bisogno di chiudersi. La mamma di Natasa ripetutamente ci ha manifestato la sua apprensione per questo fidanzamento con il principe Andrej. Vi trova qualcosa di innaturale. Certo la differenza dell’età ma più di tutte la distanza immensa di maturazione fra un uomo duramente acculturato capace di sostenere la solitudine e il dolore e l’ingenuità la semplicità l’immediatezza come un colpo in una canna di pistola sempre carica, che è Natasa. Una ragazza che ha bisogno per la sua età per la mancanza di prospettive a cui la sua società la condanna di continui stimoli continue emozioni dentro il cerchio di vita a lei consentito. La casa le passeggiate a cavallo le visite ai vicini i balli nelle città. Se le scrivessi una lettera tu, Tolstoj, gliela recapiteresti? Sarebbe un bel colpo di scena, che stasera mentre Sonia e Natasa discutono perché Sonia ha trovato la lettera di Anatole, che arrivasse un domestico con una lettera assai diversa da quella che lei è abituata a ricevere perché è scritta a macchina perché porta un francobollo e un timbro e un indirizzo dietro di una persona che lei non conosce che vive a Lecce e dov’è.



Cara Natasa
Avevo ventitre anni o ventiquattro quando Catia la mia amica mi consigliò di leggere Dona Flor e i suoi due mariti. Erano gli anni in cui si discuteva quanto come e se ci potessero essere relazioni a tre. Capita sai qualche volta di essere innamorati, meglio, di sentirsi innamorati di due persone diverse. E sono diverse veramente. Uno è dolce affettuoso tenero; l’altro rompe gli argini non spetta le risposte non tollera le distanze. Uno ti dà tempo l’altro te lo ruba come un predatore. Uno ti fa crescere l’altro ti sottrae agli altri. Ma quello impaziente mette nel legame quel desiderio di te di cui ognuno ha bisogno per sentirsi vivo. Catia mi fece leggere donna Flor per abituarmi a tollerare questo bisogno questo desiderio di avere più vite, più biografie. Per accettare che non siamo una persona sola che non siamo fatti di un unico pezzo. Che abbiamo bisogno di sicurezza e abbiamo bisogno di lanciarci nel non conosciuto. E donna Flor mi insegnò a non distruggere un legame con l’altro e Catia a gioire ogni volta che un battito d’ali atterrava sul mio cuore. Ma se tu potessi leggere donna Flor non saresti più Natasa e ti dirò non ci sarebbe neanche Guerra e Pace il grande romanzo dentro cui vivi da oltre 100 anni e io da quasi quattro mesi. Le storie raccontano gli anni e le culture e le persone spesso contemporanei a chi le ha scritte. Spesso il romanzo è il modo che una persona si dà per tenere insieme cose tanto diverse, una città un fatto caratteri molto dissimili destini a ventaglio che però convergono in un unico punto a un certo momento. Dentro il libro convergono anche le vite e i tempi del lettore. Convergono senza poter fra loro comunicare. Tu puoi comunicare con quelli che stanno con te nel libro e spero che lo farai e lo faranno. Io posso immaginare di comunicare con te. Voglio dirti non mettere i sentimenti l’uno contro l’altro. Ascolta, mi ha adesso telefonato il mio amico Franco che cos’è il telefono oh uno strumento incredibile che se vivessi adesso ti consentirebbe di sentire il principe Andrej in tutti i momenti anche in quelli meno opportuni. E la tua voce si perderebbe in un inessenziale. Perché è vero che adesso una donna ha prospettive di crescita di affermazione di sé e una libertà mai accaduta prima ma è vero che noi scontiamo un vuoto una mancanza di sentimenti e anche un livellamento dell’esperienza che ci ha resi poveri. Alla fine della lettera mi tocca ringraziarti perché il tuo turbamento e la tua sofferenza e la vergogna di te ma anche la felicità di te rompe come una diga che non ce la fa a contenere più il suo invaso e invade tutto. Mostrami ancora ciò che la tua vita custodisce come uno scrigno che qualcuno con destrezza con malinconia con un sentimento rapinoso e furtivo sta aprendo. E’ Tolstoj vestito da Anatole.




Martedì 11 dicembre 2007
Il bacio del lettore




Da moltissimi giorni ormai Natasha si è addormentata sfinita sopra la lettera che le rivela la fragilità del suo amore per il principe Andrei. L’ho lasciata in quella posizione da tantissimi giorni. Il lettore ha questa prerogativa che è solo delle fate, dei maghi: operare sospensioni tenere in un incantesimo le vite raccontate nei libri. Potrebbe dormire per chissà quanti anni ancora Natasha e non svegliarsi mai più. E non sapere mai cosa sarà del suo amore per Anatole che sposta tutto il mondo conosciuto in un precario e forse già perduto equilibrio. In cui anche lei andrà a perdere il suo. Non ti ho svegliata amica mia in tutti questi giorni forse per lasciarti ancora un po’ tranquilla nel tuo sonno profondo. Stasera non più tardi di stasera farò come il principe che trova la bella addormentata nel bosco. Peccato che lei svegliandosi gli dirà: no, non ti amo.



20 dicembre 2007
Il principe Andrej, la tosse e il barone Arezzo. Stanotte a Ragusa Ibla.




A Ragusa Ibla lui muore. Questo romanzo che ho cominciato a leggere a luglio dell’anno scorso sta per concludersi, ho aperto proprio ieri sera l’ultimo libro, il quarto. Mosca sta bruciando, Pierre è stato risparmiato dalla fucilazione per lo sguardo carico di umanità che è riuscito a stabilire con un generale francese ma la descrizione della fucilazione sono pagine di orrore e di pietà per tutti, vinti e vincitori. Ha incontrato da poco il suo compagno di priginione, quel meraviglioso ritratto d’uomo che è il piccolo falco. Natasha ha rivisto il principe Andrei e lo veglia senza risparmiarsi. Stamattina presto mentre io non riuscivo a dormire per la tosse che mi sta tanto provando in questi giorni, la sorella del principe, Maria, ha deciso di mettersi in viaggio e di raggiungere il convoglio dei Rostov insieme ai quali viaggia suo fratello. Sono pagine di una forza immensa, i sentimenti sono scale ripide che Tolstoj scende e scende e dici, si fermerà, mentre lo segui e piangi. Andrej sta morendo si sta staccando dal desiderio della vita dal desiderio dell’amore per Natasha perché un amore più grande e più stabile, così ci dice Tolstoj ha compreso in questa sua condizione così a ridosso della morte. L’amore per lei e la tenerezza che ne prova è solo una scheggia uno sfrido un truciolo direbbe lui, sfuggito alla lavorazione di quell’amore più grande che non comprendiamo e non avvertiamo perché la paura della morte ci fa da barriera, da muro, e quell’amore sta oltre. Mi accomiato anch’io così da lui. Da lui quando ero piccolo e pieno di tenerezza da lui che si chiede perché la sorella si disperi pensando a suo figlio orfano a sette anni, se è Dio stesso che pensa a ognuno di noi. Adesso questo non è più un libro ma un breviario, un libro di preghiere. A Ragusa Ibla davanti a un frigorifero che mi ricorda quello che stava a casa della nonna di Sergio, un vecchio Zoppas anni 50 che però a me sembra una riedizione moderna di quello, io sciolgo le vele del principe Andrej e di Natasha e di Maria e pure di Sonia, schiacciata la vita da un debito che non si può estinguere perché ogni giorno aumenta a dismisura. In questo guscio di casa dentro questa conchiglia spiraliforme così com’è piena di scale ripide, eleganti, di pietra pece dalle belle striature marroni e ogni gradino inserita una margherita dai petali rosso scuro, di questa casa conchiglia io sono il paguro. Me ne sto sola adesso, la tosse di stanotte mi ha impedito di uscire prendere freddo. E questa solitudine so che mi guarisce più di ogni medicina. So e adesso con una forza no, con un evidenza che non ho mai avvertito prima, che ho bisogno di isolarmi. Ho bisogno di stare solo sola, fra le cose, con esse. Cosa anch’io. Un bisogno vitale che se non soddisfo mi fa stare a disagio insicura incerta piagnucolosa. In questo periodo ho molto dato, molto molto fatto uscire da me: preoccupazione tensione paura e soprattutto sono stata sempre con tante persone. Tanti bambini tante aspettative. Lasciatemi stare un po’ per me. Mi nutro di qualcosa che io stessa fabbrico quando sto sola. Forse la capacità di tenere ferma con mano ferma con polso fermo un pensiero e costruirgli intorno un abito con cui presentarmelo. Così vestito il pensiero mi fa da spalla da punto d’appoggio e io non cado non cado mai. Ho bisogno del silenzio per fare entrare il pensiero l’attimo di commozione di pena in un processo di trasformazione da cui ne esce e io con lui, fortissimo. Forse perché trasformato abitato indossato può essere comunicato messo in comune. E a quel punto l’amore che me ne viene dagli altri mi aiuta a sentirmi forte. Ma oh Teresa, se anche tutto questo finisse qui, se anche tu avessi abitato il tuo pensiero per te soltanto, vestita e svestita davanti allo specchio che poi tutti dimentica, sarebbe stato bello lo stesso. Ho compreso qualcosa. Sono ricca di una parola un pensiero una frase compiuta, un frammento di storia di un altro che si è incrociata chissà come e perché adesso qui con me. Lontano da casa. Vicina a quel castello di Donna Fugata che abbiamo visitato ieri. Le stanze dove ha abitato nella seconda metà dell’Ottocento il barone Corrado Arezzo, un uomo appassionato di botanica, senatore della Repubblica Italiana, il cui giardino contiene specie rare fra cui la ormai quasi estinta Palma felix, quella che ha il tronco incurvato per consentire alle feluche in sosta sul Nilo di attraccare, e quel grattacielo vegetale, immenso albero di ficus elastico, che arrivò col piroscafo duecento anni nel porto di Catania, direttamente dall’Australia. Sulle sue foglie il barone incollava un francobollo un indirizzo e lo spediva ai suoi amici in Europa per invitarli qualche settimana nell’agro di Ragusa; sulla strada, una successione di basse colline di pascolo e di carrubi, che congiunge quella a Comiso e dove lui arricchì la dimora estiva di famiglia, con un prospetto ingenuamente regale. Quattro ricci ornano il suo stemma, sono animali coraggiosi e intuitivi ma nulla possono ormai contro le visite guidate e gratuite, pretese dalle scuole, 50 studenti che affollano le piccole stanze decorate di fine carta da parati e innumerevoli poltroncine dalla tappezzeria uguale a quella. Quei quattro ricci nulla possono contro il desiderio di Alvaro di sollevare il cordone pesante, rosso broccato, che separa l’area visitabile da quella riservata. La vita, un meccanismo enorme complesso e gigantesco travolge lo stemma del barone Corrado, non il suo albero di cartoline mai spedite. Aspettano che io ne stacchi una e te la invii. Sul francobollo la sagoma della Sicilia, questa terra che mi ricorda con la sua povertà, la modestia la semplicità delle abitudini di vita, soprattutto nelle vie subito dopo il centro e i centri subito dopo quello segnalato sulle guide, la mia infanzia. Qui ancora sopravvive l’amore per i figli la famiglia e il timore di Dio. Non so se questo abbia a che fare con la mafia, forse, ma anche con altre direttrici della storia che sono la bellezza delle tradizioni dei luoghi la loro pulizia e il sorriso di ospitalità che te ne viene. Sta a me, mentre spedisco la carlina inumidendone i margini gommati di questo francobollo, tenere a mente quello che io posso lasciare come traccia di me in questi giorni, oltre alla tosse all’ultimo libro, il quarto, di Guerra e Pace e alla fatica da smaltire. Forse ho già cominciato a guarire.





19 marzo 2008, Ragusa Ibla. Sicilia meridionale.