Non so chiamarti. I titoli mi vengono sempre alla fine delle cose dei processi delle storie che racconto, per immagini o per testo. Che racconto ai bambini durante un processo di educazione e autoeducazione alla bellezza e allo stupore che dura anche un intero anno scolastico. E così non so dare il titolo a questo che oggi, stamane, è solo un bisogno. Rendere pubbliche le mie tracce di questi anni. Il sito che avevo messo su e pubblicato nel 2002, opere di carta, non è mai stato abitato. Non conoscevo il linguaggio che mi consentiva di entrarci quando potevo volevo sapevo, necessitavo. Così quella casa, nata già con le tubature sgocciolanti, ha continuato a perdere acqua senza che io riuscissi a fare nulla per lei. Troppo complicato. E’ rimasta così in tutti questi anni. Una casa con le porte e le finestre aperte ma in realtà disabitata. Me ne rammarico fino a un certo punto. Forse cercavo quello che alla fine solo in questi mesi ho trovato. Uno spazio in cui abitare in questa dimensione immateriale e affascinante del web. Ma anche complicata pericolosa superficiale. Una superficie che porta all’estremo i nostri tic le nostre nevrosi le parti infantili di noi ma anche quelle serie. E’ serio infatti per me adesso il bisogno di condividere il patrimonio di pensieri e di passi compiuti in questi anni, quasi dieci ormai. Mi sembra di abitare in un luogo deserto. Quello che lancio di qua sono aerei di carta. Forse così posso chiamare il mio blog. E disegnare, o provare a farlo, traiettorie in cielo che vanno verso Nord, l’arte. Verso Sud, la scrittura. Verso Est, la famiglia e gli affetti e verso Ovest, i conseguimenti, gli obiettivi, le storie e le scoperte del mio fare e del nostro: perchè sono diversi anni ormai che immagino storie che riguardano e che si fanno, e che realizzo insieme ad altri con cui condivido una passione, due: l’amore per la bellezza la passione per la letteratura.
Al centro di questa rosa dei venti, di questo aeroporto virtuale, ci sono io e questo gesto nudo semplice vitale. Spostare di pochi centimetri e staccare da me separandomene, ciò che mi è accaduto di fare di pensare di vivere.Saranno pure tre centimetri più in là ma la tua mano che raccoglie quell’aereo caduto può decidersi di lanciarlo ancora una volta. Ne perderò allora le tracce fisiche ma non quelle per cui quell’aereo ho deciso di lanciarlo da qui. Per affidargli altri padri madri sorelle amici. Io da sola non posso dare a ciò che faccio la ragione per cui lo faccio. Sospendere incantare sciogliere il tempo e trasferirlo altrove. Su un foglio di carta tenuto forte con le loro mascelle da queste formiche che sono le parole; da questi segni di matita che sono l’eco delle mie scarpe.

martedì 31 marzo 2009

c'è un ibiscus rosa vicino a te


grazie è una parola con le ali.
Vola verso chi ha reso con la sua presenza belli i nostri incontri del 28 e del 29 marzo, al Castello. Vola verso chi non c'era ma mi ha pensato con amicizia affetto stima.
Vola verso i bambini che hanno riempito di storie il mio baule nel 2004 e che ho ritrovato l'anno scorso su un'altro progetto. Loro io lo so, lo sento lo capisco, sono il futuro e a quel futuro va il mio impegno, anche quello, modesto certo oggi, di scrivergli grazie su questa pagina di blog.
Il loro futuro che è anche quello dei miei figli mi obbliga a fare meglio e dippiù.
Il merlo di Beatrice mi manca. L'ho liberato al castello il 28 che teneva nel becco l'ora della terra e il 29 che teneva l'iniziativa di Libera, la straordinaria associazione di Don Luigi Ciotti, per raccogliere, fino al 30 marzo, con un sms i fondi per impiantare una cooperativa nelle terre confiscate alla mafia nella zone dove quindici anni fa fu ucciso don Beppe Diana, un sacerdote che con la sua vita testimoniava i valori della giustizia, che prima di essere patrimonio del Cielo è patrimonio della terra. Fu ucciso in chiesa a Casal di Principe il 19 marzo del 1994. E oggi 25 anni fa, il 31 marzo del 1984, fu uccisa a Nardò sotto il portone di casa sua Renata Fonte. Aveva 33 anni ed era assessore alla cultura del suo comune. Guidava in quei mesi un movimento di persone a difesa di una delle zone di terra e di mare più belle d'Italia, dal 2006 Parco regionale di Porto Selvaggio. Interessi edilizi speculatavi e interessi politici, si fusero e Renata Fonte fu uccisa. Sui giornali di oggi trovi le sue immagini, appartengono a un'altra epoca storica dell'Italia, un paese che mi ricordo bene, ero già grande. Fra quelle una mi colpisce. Lei ha un fiore di ibiscus fermato dietro l'orecchio sinistro, fra i capelli che sono lunghi biondi ondulati. E' una immagine a colori, di una estate. Il fiore è rosa. Mi viene da chiedere a tutti voi il racconto di quel fiore. Lo raccolse lei, le fu regalato e da chi? Se potessimo con la nostra azione, anche immaginativa fermare la storia prima del suo epilogo regaleremmo a Renata un'altra vita, perchè la innesteremmo oggi nella nostra. Così la prossima volta che ci sarà da rifiutarsi di pagare una tassa su un parcheggio abusivo, lo faremo. Così la prossima volta che ci sarà da dire a qualcuno che ha buttato per terra una carta, lo diremo. Sembra che la mafia sia tanto lontana da noi e invece è proprio qui vicino vicino vicino. Basta starsi zitti quando qualcuno tratta male una cosa che appartiene a tutti, che è pubblica, che è mia anche, e tua e sua e dei miei figli. Così la prossima volta, se saremo capaci non ci sarà da far alzare il volo il merlo di Beatrice con la parola grazie nel becco: grazie lo diremo a noi stessi e sarà una parola bandiera piantata sul primo centimetro della tempo che verrà.
teresa

venerdì 27 marzo 2009

in fine


domani pomeriggio e domenica pomeriggio dalle 16 alle 17.30 sarò al Castello Carlo V a Lecce. Racconterò in quello spazio di tempo due storie diverse: domani una storia gialla e domenica una bianca. Uscirono fuori cinque anni fa ormai, da un progetto di continuità didattica che feci con sessanta bambini fra i cinque e i sei anni. Era fra le prime cose, le prime attività che svolgevo con i gruppi. L'arte come strumento e come fine di un processo di esperienza che ruota intorno al bisogno di bellezza, ma anche a una determinazione a costruire memoria e memorie, avendo fra gli scopi quello di arrivare a un libro manufatto. Racconto queste due storie dentro un contenitore che è la rassegna d'arte Artwoman curata da Marina Pizzarelli che quest'anno è dedicata al design. Io credo di aver costruito in questi ultimi cinque anni diversi progetti di design, sociale. Ho progettato per gruppi e per piccole comunità di adulti, e di piccoli, attività che avevano come fine l'educazione alla bellezza e l'educazione alla memoria.Non perchè io sia educata, al contrario. Spesso facciamo le cose per insegnarcele a noi stessi, per collocarle e sapere dove stanno in quel momento vive in noi. Così ho tracciato una mappa di bellezza e di memoria ma per chi incontro e mi ha conosciuta artista secondo i canoni dell'artista che fa il quadro le sculture e poi le mette in mostra, io non c'ero più. E invece c'ero e ci sono fra persone con cui in questi anni è stato emozionante lavorare insieme: parlo di Clara Russo, un nome per tutte le maestre dell'Istituto comprensivo di San Donato con cui ho collaborato a frammenti e pezzi, ma assai intensamente in questi anni; e poi parlo di Valentina Sansò con cui costruiamo e scriviamo in un presente che non diventa mai passato la storia anzi, la cronaca, del nostro gruppo lettori Germinazioni. Sono sorellanze quelle con Clara e Valentina che hanno prodotto maternità. Molte inedite storie collettive. Sarebbero rimaste inaudite e per sempre irreali se non le avessimo portate sulla Terra. Domani e domenica vi mostro i tiranti le corde, le funi di quelle storie: l'emozione di una parola che sgorga dalla vita di un bambino o quella che ti precipita addosso senza preavviso. Io per prima sono stata presa alle spalle e non sono riuscita se non facendomi venire il torcicollo a guardare in faccia ciò che si mostrava a me, a noi, ogni volta come un regalo inatteso: una sopresa. Questa è per me l'arte. Il dolore a cui non voglio rinunciare. un bacio senza novalgina.

Teresa

lunedì 23 marzo 2009

Esami per tutti


Martedì scorso, il 17 marzo, si è svolto il primo consiglio di classe. La professoressa Maggiore ha riferito che il lavoro didattico si sta svolgendo regolarmente; che la classe non presenta situazioni di difficoltà e che è soddisfatta di come procede la preparazione. Nei mesi precedenti alcuni alunni hanno frequentato per alcune ore pomeridiane un potenziamento per la lingua italiana, il corso di latino; e una attività di recupero per la matematica. Chiede tuttavia di intensificare lo sforzo nella preparazione orale. Ritiene utile che gli alunni prestino particolare attenzione alla preparazione orale: a esporre a collegare gli argomenti a stabilire relazioni fra le conoscenze anche appartenenti a discipline diverse. Perché l’esame di terza media considera particolarmente, nel voto finale, questa abilità cognitiva e linguistica. Ritiene che il lavoro di esposizione orale debba essere fatto a casa da ciascuno poiché in classe si può solo apportare qualche modifica, proporre qualche suggerimento e non di più, per il poco tempo, i molti aspetti del programma, la classe numerosa. Gli esami di terza media si svolgeranno a metà giugno; ci saranno cinque prove scritte: italiano, matematica, inglese, spagnolo (per noi) e poi una prova ministeriale che è il primo anno che si attua, in cui verranno proposti nella stessa giornata due prove: italiano e matematica in forma di schede a scelta multipla. Sono prove scritte che i nostri figli già conoscono, nella forma e nei contenuti, perché negli anni scorsi la scuola ci ha tenuto a proporle, sono le famose prove invalsi, oggi prove ufficiali di valutazione nell’esame di licenza media. La Commissione di esame è costituita da tutti i docenti della classe e ha come commissario esterno un preside proveniente da un’altra Scuola media. Molta importanza si attribuisce al colloquio orale in cui l’allievo parte dalla esposizione di un argomento a sua scelta da sviluppare in forma multidisciplinare. La capacità di collegare le conoscenze e i saperi è una abilità su cui è utile prepararsi fin d’ora, questa la raccomandazione che ci è rivolta.
Viene successivamente toccato il capitolo della gita che martedì scorso non ci è stata presentata in dettaglio poichè ancora si attendevano i riscontri dalle agenzie. Abbiamo poi due giorni fa ricevuto tutte le informazioni relative e il modulo di partecipazione. Come sappiamo la gita a Porto Recanati Ravenna e Venezia riguarda solo le terze di Castromediano; sarà affittato un pullman a due piani per la circostanza. Le insegnanti che accompagneranno la nostra classe sono le professoresse Maggiore e Solazzo (Spagnolo).
Altro argomento è l’adozione dei libri di testo. La professoressa Maggiore vorrebbe sostituire quelli di Italiano e Antologia, ma le nuove norme che regolano la scelta dei testi rappresentano un ostacolo significativo a questa esigenza. E’ obbligatorio adottare per almeno sei anni; ci sono vincoli di prezzo, i libri non devono superare una certa cifra, e devono essere fruibili via Internet. L’anno prossimo ci sarà un cambiamento orario nella giornata scolastica, la Riforma Gelmini tocca l’attuale organizzazione del tempo avendo ridotto il monte ore di alcune materie. Italiano passa da 11 ore settimanali a 9; Tecnologia perde un’ora; le cattedre saranno ridimensionate e l’orario ridotto a 30 ore settimanali invece delle attuali 32. Una manovra che ha come obiettivo la riduzione del numero degli insegnanti, cioè dei costi di gestione della scuola, che andrà certo ad accrescere le difficoltà in cui la scuola pubblica si trova già ad operare. La sofferenza in cui versa questo bene collettivo che è la Pubblica Istruzione si manifesta anche nei comportamenti che i nostri figli assumono a scuola. I professori si mostrano affranti, delusi, ma anche disorientati da un fenomeno che quest’anno si manifesta in una forma inaspettatamente violenta. Nei bagni dei ragazzi sono state distrutte due porte. Hanno sfondato e aperto per ciascuna porta dei grossi varchi, tali da rendere inutilizzabili i bagni. E’ un atto di vandalismo. Anche i bagni delle ragazze sono oggetto di violenza anche se apparentemente meno eclatante. Sono stati sporcati coi pennarelli e la bidella si lamenta del lavoro di gomito che deve quotidianamente affrontare, e divelti staccati in alcuni punti della parete gli imbotti, e avviata l’apertura di un buco nello spessore di una porta. La professoressa Maggiore ci ha fatto notare che i bagni sono insufficienti, come numero, per la popolazione di studenti che li utilizza e dunque questi danni rappresentano l’ulteriore riduzione di un servizio già insufficiente in buone condizioni. Ci ha riferito di aver affrontato in classe, in III F l’argomento, che ha chiesto ai nostri figli di guardare a questi gesti, che si compiono a volte sotto i loro occhi e con il loro silenzio complice, con una consapevolezza e un senso di responsabilità che non ha tuttavia dato risultati. I colpevoli sono protetti dalla debolezza dalla indifferenza dalla mancanza di affezione ai luoghi pubblici di tutti gli altri. E’ un segno di fragilità morale che toglie dignità: coraggio, fiducia in se stessi e nel valore su cui fondiamo la convivenza, il rispetto. E’ il primo anno che si verifica un fenomeno così grave, ci dicono gli insegnanti. Due anni fa, o l’anno scorso non ricordo, c’era stato un episodio analogo, ma assai meno grave e la porta era stata rattoppata e dunque tutto quello che è accaduto è accaduto quest’anno: ed è successo davanti agli occhi, nel caso migliore, dei nostri figli. Non so cosa dire. I professori ci hanno tenuto a mostrarci questo vile scempio. Vile in chi l’ha operato e vile in chi l’ha protetto. Quel buco sulla porta, quei buchi, quelle voragini, sono i buchi della nostra educazione. Due anni fa fu tappato, oggi non si può più. E’talmente grande che le porte devono essere sostituite. Mi sembra un doloroso verdetto su di noi come genitori. E come adulti.

Teresa Ciulli, mamma di Amalia

Al consiglio di classe oltre alle insegnanti hanno partecipato le mamme di Ludovica e di Emanuele.

giovedì 19 marzo 2009

piccola tappa nella scatola della tivù

ieri pomeriggio nello studio televisivo di una televisione locale. Mi butto in una situazione di cui non conosco le coordinate, se non: vado alla televisione. Che errore. C'è televisione e televisione (forse), programma e programma, conduzione e conduzione: stile e stile. Che errore. Pagato ritagliandomi in una eccessiva rigidità come se automaticamente la parola sotto i riflettori si flettesse nella finzione. Sono stata al gioco, è vero. Ma potevo sceglierlo e invece ho preferito ignorarlo. Ci sono contesti come quello di ieri pomeriggio in cui la comunicazione è volutamente frivola, deliberatamente costruita a impegnare pochi neuroni, caso mai si stancano. In quel contesto suona fuori misura e sfiorisce subito una parola che si schiera dal lato del senso. Meglio sarebbe stato ritagliarsi uno spazio di parola nel cono d'ombra dell'ironia che fa luce sul mondo intorno.

mercoledì 18 marzo 2009

il cappello sulla mia testa


il design sociale, e che cos'è? E' un nome, arbitrario certo, imperfetto certo, che ho messo come un cappello in testa a tutte le cose le attività i progetti che ho fatto negli ultimi cinque anni. Per caso in questi ultimi due mesi, poichè partecipo con due attività il 28 e il 29 marzo ad ArtWoman09 presso il Castello Carlo V a Lecce, mi sono trovata lanciata in questo processo di dare un nome a ciò che ho fatto, tanto, tantissimo soprattutto per l'impegno e l'entusiasmo che ci ho e ci abbiamo messo. Come ho scritto non mi ricordo più dove, è cambiata la scala di realizzazione del mio pensiero della mia visione. Prima era tutta consegnata, nell'attimo in cui essa si manifestava, nel perimetro del mio tavolo di lavoro, un quadrato due metri e mezzo per due metri e mezzo. Negli ultimi anni invece essa è solo l'incipit, l'inizio di una avventura che coinvolge altre persone oltre me, che da quella porta iniziale si inoltrano in una esperienza che andiamo a fare esistere con la motivazione l'entusiasmo il desiderio collettivo. Alla fine di questa esperienza abbiamo costruito una storia che prima non c'era e adesso c'è. Ho sempre raccontato storie, sempre unito l'immagine alla parola: cervello destro e cervello sinistro. Io vivo su quella confluenza sono nel ponte che unisce i due emisferi. Là compio me stessa, nel corpo calloso della mia testa. Negli ultimi anni invece le storie le inseguo insieme agli altri, in un gruppo. E' cambiata la scala di realizzazione dell'idea; dell'immagine della visione. Un designer è uno che fa un prototipo in cui la funzione di un oggetto è enfatizzata al massimo e incarnata in una inedita forma estetica finale, e quello è l'inizio anche di una nuova dimensione dell'oggetto, una nuova maniera di viverlo e usarlo: cambiandone il legame antropologico. L'oggetto viene così, dalla sua industrializazione, come ribattezzato daccapo, gli viene data una seconda vita, una seconda biografia, un altro destino. Anche io uso l'arte come mezzo per un fine che non è più solo artistico: la memoria, la malattia della letteratura, l'abbattimento delle barriere; quelle che separano i piccoli dai grandi i malati dai sani. L'esisto finale sono dunque azioni complesse che riesco a portare a termine solo perchè le faccio insieme ad altri. Nutrendomi e facendo entrare in sinergia, dentro un circolo virtuoso, gli entusiasmi le motivazioni l'amore per la bellezza, le professioni. Ho lavorato molto nell'Istituto comprensivo di San Donato di Lecce con insegnanti che hanno un grande amore per il loro lavoro, cinque parole ormai in disarmo come una nave a vapore, e fra loro certo Clara Russo che ha una innnata capacità, da vera maestra, a tirare fuori il meglio da ciascuno e non scherzo se dico che lo ha fatto e ogni volta che le capito a tiro lo fa anche con me, e io ne sono felice perchè sempre abbiamo bisogno di una fune per tirare fuori dal pozzo l'acqua e se le funi sono due ci bevi per un mese intero. E poi collaboro dall'anno della sua fondazione con il Presidio del libro e oggi anche Associazione culturale Germinazioni, ovvero con Valentina Sansò e con il gruppo dei lettori del Centro di riabilitazione psichiatrica del CIM di Lecce. Valentina è l'altra persona che riesce a tirare fuori da me l'impensabile, perchè lo tira costantemente fuori da se stessa a trecentosessanta gradi di creatività. Credo che con loro, con queste belle figure di donne di professioniste di esseri umani condividiamo lo stesso bisogno: trasformare cambiare la realtà, trovando una corda abbastanza potente, perchè invisibile e nessuno nemmeno noi la possiamo più tagliare, per agganciare l'immaginazione in mezzo a noi. Come un dirigibile in sosta sul prato laterale, quello vicino alla rete di recinzione, di fianco a quella chiesa romanica con il portone di legno sempre aperto, dove ci sono mosaici la cui bellezza non immagini. Se ti capita di passare da lì fermati e stupisciti.

post scriptum:
cara Beatrice Alemagna ti ringrazio del merlo che ho potuto mettere sul mio cappello giallo, quello che ho trovato nel tuo bellissimo libro in francese un e sept che ho comprato anni fa in quella meravigliosa libreria di Bologna che si chiama Giannino Stoppani. E ringrazio anche Sara Leo, altra meravigliosa figura di maestra di donna di mamma di pianista che mi rende possibile in questi mesi un viaggio nella creatività insieme a lei alle sue figlie ai miei figli. Quel merlo è uno sfrido di lavorazione di un nostro pomeriggio di tastiere: quelle del piano e quelle della tavolozza. E "the last but not the least" ultimo ma non meno importante, la necessità di raccontarmi agli studenti dell'ultimo anno del Liceo di Fasano. Quante storie dentro un cappello che vola. Certo, altrimenti non potrebbe.

giovedì 12 marzo 2009

martedì 10 marzo 2009

martedì 3 marzo 2009

La collezione di ahia


Leggo da quando sono piccola. Leggere è stata la mia prima abilità. E la prima esperienza carica di magia che potevo compiere da sola.
Cos’è leggere, voi lo sapete.
E’ un gesto che manifesto ed esercito tutti i giorni: cinque minuti ormai, prima di andare a dormire.
All’inizio degli anni 90 ho scoperto un altro gesto capace di emozionarmi. Fu scrivendo una lettera d’amore. Quelle parole non volevano starsene ferme sul foglio, si muovevano, volevano mettersi in mostra farsi vedere meglio. Così le ho imbarcate, trasformate in bandiere, disseminate su una pista come briciole di pane.
Entrare dentro la pancia delle parole esplicitare le loro metafore saccheggiare tutta l’emotività che ci sta dentro era diventata la mia preoccupazione principale. Ho dedicato molte mostre a esplorare il confine fra la parola e la sua ombra fisica, tattile, tridimensionale. Mentre ero su quel confine, dall’altra parte ho incontrato gente. Dapprima venivano a trovarmi per chiacchierare un po’, poi per chiedermi di saltare il muretto e andarli a trovare a casa. C’erano famiglie da quella parte, bambini da quella parte, c’erano scuole, e volevano conoscermi. Ascoltare e magari giocare con me e imparare quando si può, a entrare nella pancia della parola. Dissi di sì la prima volta quasi dieci anni fa. Prima di quel salto pativo, ma anche cercavo, la solitudine. Ore e ore sequestrata da me stessa e aveva finito per non bastarmi più. Anche le telefonate mi davano fastidio. Cresceva in me una pianta, rapidamente, e toglieva spazio al resto, e al cielo anche. Non so chiamarla per nome. So come è fatta. Di tante ore da sola. E più ero sola più volevo essere sola. Il silenzio è lo spazio fisico che forse amo di più di ogni altro ed è quello che nei momenti di grazia ho consegnato all’opera, nell’opera. Forse non era la solitudine ma il silenzio che cercavo di difendere così tanto. Solo che quando ce n’è troppo, quando dilaga, lo smarrisci lo perdi nella solitudine e non ricordi più la sua qualità essenziale la sua necessità: che il silenzio è una condizione interiore prima di essere esteriore e che è tanto importante perché lì, nel silenzio, si manifesta e mantiene viva la domanda che ci nutre. E’ sempre la stessa. Chi sono, perché sono qui.
Il paradosso è che la domanda, quella domanda, nasce dall’incontro col mondo. Se io sto ferma e chiusa in bozzolo che domande più posso farmi? Ripeto me stessa come si ripete la melodia nel disco di vinile che si è scheggiato. Così sono andata, ho saltato il muretto della solitudine della mia condizione di artista e sono andata fuori dal mio spazio, perché avevo bisogno del mondo, cioè di innamorarmi. Di entrare in contatto con l’altro con ciò che non conosco e che non mi conosce. Per uscire fuori dalla mia orbita. Volevo cadere di nuovo, e farmi male. Perché in quell’ahia c’è che sei vivo e cerchi un equilibrio che non hai più se mai l’ho avuto. Così ho messo in fila in questi anni ultimi la mia collezione di ahia. Una collezione molto disordinata come si conviene a una raccolta così intima.
Sono caduta di proposito. Come quando ho fatto Cappuccetto, arrivandoci attraverso un libro di Munari, con sessanta bambini, nel 2004. E’ stato bellissimo ci siamo fatti male in tanti ma eravamo felici con i nostri ginocchi sbucciati. Poi quando ho cominciato a collaborare con Valentina e abbiamo avviato il Presidio. Sono tornata lettore, nel mio rango originario. Abbiamo prima fatto Compagine, otto incontri a rimurginare sui tic sulle ritualità sulle abitudini legate alla lettura e poi, come se si fosse aperta una diga, è seguito con il Presidio un flusso di attività che non si è più interrotto. C’è stato Verso il largo, poi Pagina 58 emozionantissima, i cui echi incontriamo ancora e mi fanno inciampare, cadere ma con un ahia di felicità. E tutte le attività collaterali che leghiamo a un progetto, come gli anelli di Giove che fanno bello il pianeta e ricco di qualcosa di unico. Fino a ieri, fino a Etty, alla giornata della memoria; attraversando di nuovo la strada per andare a lavorare nella scuola elementare su progetti che partono sempre dal libro e dall’amore per la parola. A quell’amore, tutto quello che faccio da sola e con gli altri, torno. Anche oggi qui a Fasano insieme a voi, qui torno. Facendomi male anche oggi, collezionando anche oggi il mio ahia che consegna e certifica a me stessa che sono viva in un compito ancora una volta nuovo. Raccontare a un pubblico di ragazze di ragazzi, e non da sola ma insieme a Claudio Luca e Valentina che ci faccio io qui, con loro e con voi. Lo vorrei sapere pure io, e proprio perché lo vorrei sapere ho accettato di venire. E’ che da molti anni a questa parte quello che vedo, che anticipo con la testa, che immagino, lo condivido e lo innaffio insieme agli altri. Sono pensieri che mi stupiscono proprio perché la loro scala di realizzazione non è più quella che si misura in metri sul mio tavolo da disegno nel mio studio, ma quella che si misura in chilometri su altri tavoli fuori dal mio studio; dentro una scala di realizzazione che include un gruppo di persone e da quelle, se e quando riusciamo, una società, gruppi, contesti. Adesso quando sbaglio mi faccio male davvero. La mia collezione di ahia si è arricchita di un dolore che prima non conoscevo. Valeva la pena? Valeva la pena diventare più consapevoli se più complessa, più tormentata, più impegnativa si è fatta la mia vita? Non rispondo ma con le parole predispongo il silenzio che come un paracadute fa atterrare dolcemente questa domanda: senza farsi male.