Non so chiamarti. I titoli mi vengono sempre alla fine delle cose dei processi delle storie che racconto, per immagini o per testo. Che racconto ai bambini durante un processo di educazione e autoeducazione alla bellezza e allo stupore che dura anche un intero anno scolastico. E così non so dare il titolo a questo che oggi, stamane, è solo un bisogno. Rendere pubbliche le mie tracce di questi anni. Il sito che avevo messo su e pubblicato nel 2002, opere di carta, non è mai stato abitato. Non conoscevo il linguaggio che mi consentiva di entrarci quando potevo volevo sapevo, necessitavo. Così quella casa, nata già con le tubature sgocciolanti, ha continuato a perdere acqua senza che io riuscissi a fare nulla per lei. Troppo complicato. E’ rimasta così in tutti questi anni. Una casa con le porte e le finestre aperte ma in realtà disabitata. Me ne rammarico fino a un certo punto. Forse cercavo quello che alla fine solo in questi mesi ho trovato. Uno spazio in cui abitare in questa dimensione immateriale e affascinante del web. Ma anche complicata pericolosa superficiale. Una superficie che porta all’estremo i nostri tic le nostre nevrosi le parti infantili di noi ma anche quelle serie. E’ serio infatti per me adesso il bisogno di condividere il patrimonio di pensieri e di passi compiuti in questi anni, quasi dieci ormai. Mi sembra di abitare in un luogo deserto. Quello che lancio di qua sono aerei di carta. Forse così posso chiamare il mio blog. E disegnare, o provare a farlo, traiettorie in cielo che vanno verso Nord, l’arte. Verso Sud, la scrittura. Verso Est, la famiglia e gli affetti e verso Ovest, i conseguimenti, gli obiettivi, le storie e le scoperte del mio fare e del nostro: perchè sono diversi anni ormai che immagino storie che riguardano e che si fanno, e che realizzo insieme ad altri con cui condivido una passione, due: l’amore per la bellezza la passione per la letteratura.
Al centro di questa rosa dei venti, di questo aeroporto virtuale, ci sono io e questo gesto nudo semplice vitale. Spostare di pochi centimetri e staccare da me separandomene, ciò che mi è accaduto di fare di pensare di vivere.Saranno pure tre centimetri più in là ma la tua mano che raccoglie quell’aereo caduto può decidersi di lanciarlo ancora una volta. Ne perderò allora le tracce fisiche ma non quelle per cui quell’aereo ho deciso di lanciarlo da qui. Per affidargli altri padri madri sorelle amici. Io da sola non posso dare a ciò che faccio la ragione per cui lo faccio. Sospendere incantare sciogliere il tempo e trasferirlo altrove. Su un foglio di carta tenuto forte con le loro mascelle da queste formiche che sono le parole; da questi segni di matita che sono l’eco delle mie scarpe.

giovedì 3 novembre 2011


 

giovedì 22 settembre 2011

come completare il sole

istruzioni:
sabato 24 settembre 2011

dalle ore 19.00 alle 20.30
Chiesetta Balsamo, via Pozzuolo
Lecce




Germinazioni
in occasione della
VII edizione della Festa dei lettori “Italia-Europa, andata e racconto”
iniziativa promossa dalla Regione Puglia, Assessorato al Mediterraneo,
in collaborazione con l’Associazione Nazionale Presidì del Libro,
con il patrocinio del Comune di Lecce, IV circoscrizione Rudiae – Ferrovia,
e con il sostegno della Provincia di Lecce, Assessorato alla Cultura

presenta

Libri come voliere
jam session di lettori per liberare con le voci le parole chiuse nei libri
[ spazio aperto ai musicisti con incursioni libere ed estemporanee ]




Apriamo le voliere.
Il libro è la gabbia delle parole.

Siete tutti invitati a un’improvvisazione irripetibile attraverso la lettura collettiva e simultanea delle pagine del libro che ognuno sta leggendo, di qualunque lingua sia, per dare vita ad una biblioteca sonora. Portate con voi il desiderio di entrare nella voliera e collaborare alla costruzione di una dimensione sonora di cui nessuno sa l’esito ma ne conosce il motivo: giocare con il libro per vivere una inedita esperienza ed esplorarne creativamente i confini che non ha. La voliera è aperta a tutti i musicisti che vogliano accordare i loro strumenti alle voci dei lettori, in acustica.
p.s. è ammessa ogni genere di lettura: dal ricettario al manuale di matematica, dalla gazzetta dello sport ai libri illustrati, dai fumetti alla costituzione, …
Leggere come atto, aldilà del contenuto. Leggere atto astratto, assoluto, unico. Leggere atto estetico. Leggere per creare suono, esperienza estemporanea, interferenza sonora, happening sonoro. Leggere atto politico.



per informazioni sui presidi
http://www.presidi.org/

()()()
Germinazioni
Associazione Culturale
Presidio del Libro
associata a Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie
Lecce
email: germinazioni@libero.it
blog: http://germinazioni.blogspot.com

Un’ora e un luogo certi di una Biblioteca che non c’è

Mi vuoi consigliare un libro?
Tieniti lontano!
non ho tempo.

La festa dei lettori?
solo se si apre a un gioco:
durerà un’ora e poi passerà

Ma in quel tempo
suoneremo le nostre voci tutti insieme.

Che chiasso?
Si, forse
Oppure un intreccio un groviglio
una creatura mostruosa
di parole di frasi di nomi di uomini
di tempi di spazi di luoghi
che a quella temperatura vocale
oh si, potrebbero fondere

Cosa ne nasce?

Un vapore di frammenti di una Biblioteca vivente
una nuvola nuova
assolutamente e perfettamente invisibile;
un vuoto
in cui liberare il tempo che non abbiamo più
per leggere
per stare con i figli
per ritrovare le carezze
non quelle di ieri però;
e per lasciarsi stare sotto il sole seduti per terra
appoggiati a un muro fraterno

Noi questo vogliamo dal libro che incombe
ormai come una minaccia:
togliergli tutti i significati e tutta l’importanza
e tutte le persone che gli sono caduti addosso
come una maledizione.

Lasciarlo nudo e vuoto lì
come una navicella
una mano aperta
un tappeto volante
un ostacolo
una porta da aprire
che magari è quella di una voliera
e tutte quelle parole là dentro
da fare uscire fuori

Tutti insieme e tutte insieme

Un boato di storie
alle 20, quando tutto sarà finito,

allora mi aspetto qualcosa:
una parola, una sola
sì, quella che non è riuscita a sollevarsi abbastanza
che mi cadrà fra i capelli
come una goccia di rugiada
uno strass
la cacca di un volatile:
portafortuna, diranno, per consolarmi.



teresa ciulli
per Libri come Voliere
Festa dei lettori 2011
Lecce, 24 settembre
Chiesetta Balsamo; dalle 19 alle 20.
Associazione culturale e Presidio del libro Germinazioni

Libri come voliere










Nella voliera più grande che c'è

Non potrò più leggere, ora ne ho la certezza, tutti i libri comprati in questi anni nelle librerie. Quelli scelti per il titolo, alcuni; quelli per le copertine, pochi; quelli cercati dopo un passaparola, un terzo forse. Quelli di cui pensavo avere bisogno e invece neppure ho mai aperto la prima pagina. E sono passati decenni. Adesso che faccio così fatica a leggere un libro, uno solo e solo perché mi piace moltissimo, roba che ci metto dai due mesi a un anno e mezzo, dipende dalla lunghezza, so che per tutti gli altri, tutti quelli che non ho letto nel momento stesso in cui li acquistavo, non ci sarà più un lettore. Sono oltre la metà dei libri che posseggo, forse, orrore, i tre quarti di forse un cinquecento libri. Ne avrò letti al massimo un centinaio. La gran parte dei quali duranti gli anni belli, dagli 8 ai 40. Ma i migliori, invece, li ho letti in questi ultimi anni, dai 40 ai 50, gli indimenticabili. Quelli che mi stanno dentro come dentro possono stare gli amici con cui condividi i dolori più grandi le pene e le fatiche che sembrano non finire più. Quel genere di libro ora leggo, li pesco dai classici, dalle grandi storie dell’Ottocento, dai quei grandi autori, con qualche folgorante eccezione. Li incontro, uno, due, per caso, gli altri me li consiglia una mia amica, libraia fino a Natale, poi dovrà chiudere bottega perché proprio non ce la fa a mandare avanti dopo oltre quindici anni di intensa fine magistrale attività, la sua vita. Le piccole librerie indipendenti sono schiacciate dal mercato delle grandi librerie, dalle catene editoriali dei prodotti globalizzabili e delle promozioni per fasce di acquirenti.
Non si può penso, di questi tempi neppure più parlare di lettori e non si può più nemmeno parlare di libri. Non esiste più qualcuno che si isola col suo libro in mano e nonostante l’immensa proliferazione dei libri, si fa fatica a trovarne uno che ci chiami zitto zitto. Non solo ma nessuno di noi, in questo angolo illusorio di mondo, riuscirà più, come me, a leggere tutto quanto è arrivato a possedere. Una sconfitta grava sulle mie spalle, e sulle tue. Sulle nostre. Abbiamo anche ormai difficoltà a disfarci di quello che possediamo. Lo smaltimento di noi stessi. Eppure dovremmo cominciare subito. Innanzi tutto smettendo di comprare. Che parole impopolari le mie. Avrò tutti contro. Ma sento necessario un gesto con cui cominciare a invertire la rotta. Ti devi prima fermare e poi girare su te stesso. Non si tratta di tornare nel punto da cui si è partiti, quanto invece di capire che ne è stato nel frattempo dei luoghi delle persone delle cose che abbiamo messo da parte come se ci fosse poi un’altra vita in cui utilizzare tutto quello che abbiamo stipato in noi, come se dovessimo affrontare un viaggio interstellare di decine e decine di anni luce.

E’ una smobilitazione ed è il poco quello che mi sembra utile cercare in me. Ma anche il gioco salverei. La capacità di stare insieme a qualcuno condividendo una passione una motivazione un bisogno. Bisogno! Ecco la parola magica che fa vacillare tutto nel momento in cui la pronuncio. Che, di bisogni, noi qui non ce ne abbiamo proprio più. Apparentemente. Io, per esempio, ho bisogno di silenzio per capire qualche cosa di me. E lo cerco nelle Chiese e lo cerco davanti al computer e aprendo Word. Ho bisogno anche di fare spazio, di vuoto ho bisogno, e di tenere questo vuoto vivo per un po’, forse tutto il tempo che mi rimane. Ho bisogno di spogliarmi della mia identità ingombrante e di godere invece della difficoltà di cui sono venuta a capo. Se togliere è stata spesso la mia esigenza, questo togliere è diventato una priorità.

E dunque togliamo di mezzo che mi aspetto che qualcuno mi consigli un libro, non posso sovraccaricare oltre ciò che accade con il suo ritmo nelle mie già difficili giornate passate a fare lo slalom fra i bisogni dei miei figli la cui presenza mi arricchisce smisuratamente. A fare lo slalom fra la pena di sapere un pezzo, l’unico rimasto della mia famiglia di origine, sospeso nelle grandi difficoltà che genera la distanza spaziale quando c’è di mezzo la malattia la vecchiaia la solitudine. A fare lo slalom fra quei pochi impegni che riesco ancora a fare entrare dalla porta principale della mia coscienza. Cosa c’entra dunque la festa dei lettori in una vita così? Anzi, come c’entra se non affratellandosi al cavolo a merenda. Oppure, al contrario, c’entra nella misura in cui la restituiamo al mittente modificandola dall’interno. Io non voglio leggere altri libri. Sono già felice del fatto di riuscire a finire quello che sto leggendo adesso, perché mi piace immensamente e leggerlo mi fa fare un viaggio nel tempo nello spazio e nella mente di un immenso scrittore, e già mi pongo in corso d’opera il problema di aprire qualcuno dei libri che sosta, bistrattato da decine d’anni, fra le file mute dei libri presto abbandonati nella libreria. Un luogo assurdo a pensarci. Che stanno a fare così, e lì. In quella forma privata che li esclude da ogni contaminazione da ogni sguardo altrui. Privandoli di fatto per sempre della possibilità di esistere nella loro forma. Luoghi di reclusione le nostre case: di libri di dischi di vestiti di oggetti di quadri. Prigioni, penitenziari della memoria. Ma la memoria dovrebbe tornare ad essere quella che è stata prima di questo intasamento dovuto alla nascita dell’individuo,un prodotto tutto Novecentesco. Un prodotto, appunto. La memoria dovrebbe consistere nella capacità di stare con gli altri di trasmettere conoscenze affetti solidarietà. E di condividere il tempo nelle varie forme in cui si accede a questa condivisione, anche, soprattutto? attraverso il gioco.

Ecco perché poiché non voglio che nessuno mi consigli un libro, che tanto il tempo per leggerlo è finito, credo sia necessario liberare le pagine del libro senza lasciare alcuna traccia, anzi, cancellandola nel momento stesso in cui si produce. Cominciamo a togliere da subito. Cosa resta allora? Per chi c’è, l’esperienza che non si ripeterà più di una babele di parole tirate fuori da ciascuno da poche pagine lette ad alta voce contemporaneamente a tutti gli altri. La svelta edificazione di una sfera sonora che non esisterà più nel momento stesso in cui cesseremo di leggere tutti insieme. Perché allora questo gesto così inutile? Chiassoso? Non è mai inutile segnalare un malessere mai inutile esprimere il proprio disagio a continuare la vita in questa forma che non nutre più la coscienza. E poi questo incontro di lettori altro non è se non l’incontro di uccelli nella zona di passo. Durante le migrazioni si ritrovano nei bacini dove c’è acqua e cibo. Cantano tutti insieme la loro libertà. E la libertà non è affatto inutile è invece il bene più grande che dobbiamo difendere oggi da una organizzazione sociale che la restringe ogni giorno di più togliendoci i diritti al bene pubblico: la salute l’istruzione l’ambiente: la legge. Io non voglio essere un consumatore ma un fruitore, un cittadino che beneficia di un servizio, quello alla cultura; e di un diritto: quello ad avere la risposta dello Stato al mio bisogno fondamentali: vivere insieme agli altri e magari scolpire l’occasione in cui condividere un bisogno che si trasforma in una giornata irripetibile e che nessuno conserverà se non nel racconto. Stare al centro di una palla di parole che alziamo tutti insieme per un’ora in aria. Un’orchestra di lettori? Sì, un’orchestra di pagine belle da liberare nella voliera più grande che c’è: la nostra Terra errante.

giovedì 26 maggio 2011

Bolla d'Aria

Vivere è sbagliare.
anche a cinquant’anni?
soprattutto, di più!
Perché se nei primi cinquanta
sei stato Campione Regionale di Ruminazione
faccio così o faccio colì
a cinquanta sei pronto per le Universiadi:
quelle dove quando vinci, vinci
sempre una sconfitta.
Se stessi contro Se stessi
quella è la gara
e non si fa allo specchio del bagno.
Capisci bene come la vittoria
non può esserci
per una questione di matematica
anzi
di logica.
E allora oltre che imparare
ieri
per l’ennesima volta la verità che non applicherò mai:
che la parola è la realtà
ha più potere di essa
e ogni volta che la tradisci
che torni indietro su una piccola verità che hai afferrato per miracolo
in un momento di grande irripetibile ispirazione,
salti via dall’unica zolla
via dall’unica zattera
l’unico pezzo di legno che
avevi avuto la fortuna di trovare in un mare aperto.
Non mi resta
per consolarmi un poco
adesso che vado a fondo che sono proprio stanca
di attaccarmi
guarda!
a una bolla d’aria che sale da giù
dal fondo del mare:
sarà il ruttino di un pescecane
o di uno squalo.
Mi dice
quella bolla a cui mi afferro
che vivere è sbagliare:
laggiù, più sotto ancora
lo squalo per guardare a me
ha urtato la sua tripla dentatura sulla parete assai scoscesa.

mercoledì 25 maggio 2011

martedì 24 maggio 2011

martedì 17 maggio 2011



Nuvolario

Oggi, finalmente, ho sceso giù, ho liberato, la mia Collezione di Nuvole. Collezione di nuvole autunno/inverno 2010. Si erano andate a sollevare come vapori di carta dal grande tavolo quadrato dove mi capita, sempre più imprevedibilmente, di lavorare. Si sono sollevati vapori di trucioli di matita, vapori di tessuto leggero dove imparai a stampare anni fa i miei testi, quando facevo grandi sperimentazioni, soprattutto assai pericolose per i corti circuiti che avrei potuto generare, e non certo mentali ma proprio elettrici. Si sono sollevati vapori di ritagli di carta, chissà che tagliavo in quel mentre, forse le pagine manufatte del libro sui diritti dell’infanzia. Si sono sollevati nastri e si sono andati a condensare laggiù, cioè, lassù, sopra i due coni di luce che stanno come sentinelle alla frontiera del buio. Due vulcani dalla bocca rovesciata. Sono eleganti le mie nuvole anche se una è fatta di fil di ferro, di vario tipo. E’ una nuvola di pioggia acida. Dalle altre invece cade giù matita colorata, cade giù carta, cade giù tessuto di organza, cadono giù, lettere dell’alfabeto. Cade giù colore: fucsia arancio rosso rosa, verde marcio. Forse per questo che si sono sollevate, per riprendere, in un giorno di temporale, il loro ciclo di vita. Riprendere il loro cammino circolare dalla terra al cielo e una volta lì, di nuovo alla terra. Un cammino che si è interrotto qualche anno fa. L’ultima mostra mia, quando è stata, mi sembra che è passato tanto tempo, sì, dico, una mostra voluta da me e non una di quelle che mi sono trovata a fare perché me la hanno proposto gli altri. Una roba tutta mia insomma. Come questa collezione di nuvole. Che c’è da dire che sì, che conta l’eleganza di una nuvola, il suo vestito la sua forma il suo colore la sua misura, se è grande o piccola, certo conta eccome se conta, ma per me ha contato pure il suo cordone ombelicale: il modo con cui l’ho tenuta issata, agganciata, con il suo peduncolo di tessuto o spago o fil di ferro, al cielo della mia doppia lampada. Devo pure dire che hanno proiettato la loro ombra su di me, sul tavolo, sull’Oceano di Debussy, che è l’ultima grande opera di carta fatta in questo periodo. L’amico Matteo, che lo ha fotografato mentre costruivamo il video di Reflets dans l’eau, le aveva tolte di mezzo arrotolandole fra loro. Non erano più nuvole da un bel po’, tre mesi. Forse se ne erano andate in un pensionato per nubi, un triste luogo senza più un cielo. Si erano perdute e io non me ne sono accorta. Per fare ordine devo cominciare da qui: dall’ospizio delle nuvole. Sono loro, una per una. Sono andata a trovarle, no a prendermele. Le ho sciolte dal loro incantesimo di fili imbrogliati e le ho scese giù. Stanno adesso come misteriose concrezioni in attesa di me. La loro mamma. Io partorisco nuvole; come una qualunque ciminiera di una qualunque periferia industriale. Ma le mie si fermano prima: addirittura prima di arrivare a toccare il soffitto del mio studio. Spesso si fermano dentro di me, sul solaio della mia testa. Talvolta sono fortunate ed escono dalle orecchie dal naso dalla bocca dagli occhi; ma dalle mani di più. Ho fatto l’artista in questi vent’anni. Dal 1992 a ora. Da quando scrissi una lettera d’amore. Ora ho tante nuvole da classificare. Cominciando da queste qui. Per farne che, per farne cosa: una sfilata? No e basta con queste sfilate. Per farne una pioggia una pioggia che duri tre anni, saranno sufficienti. A ripulire di nuovo la terra. A restituirci il sole.

la prima goccia.
Teresa, 13 maggio 2011, venerdì

sabato 9 aprile 2011

Shuttle di carta

Questa settimana.


Uccidono all’uscita del campo profughi di Jenin, in Palestina, l’attore e regista Julius Mer-Khamir, madre israeliana, padre palestinese. Noto per aver fatto un film qualche anno fa su alcuni bambini che anni prima avevano fatto parte di un gruppo teatrale messo su da sua madre Arna. Lo hanno ucciso i palestinesi stessi, convinti fosse una spia del governo israeliano o i servizi israeliani, convinti che fosse una spia dei palestinesi? Certo hanno ucciso una voce umana che ne rendeva possibili altre, in condizioni di vita miserabili.

Nel frattempo continua la fuga di notizie sulla fuga radioattiva di cesio e iodio dalla centrale atomica di Fukushima: tre giorni fa sul giornale scrivono che nel mare ci sono concentrazione sette milioni di volte superiori al livello di normalità che quelle due sostanze devono registrare. Sette milioni di volte, penso, è la fine del mondo. L’intossicazione dei pesci e da lì a tutta la catena alimentare. La morte del mondo. E’ un lutto di immense proporzioni. E’ la nostra morte annunciata, ma non mi sembra che sui giornali ci sia cenno agli effetti di questa catastrofe: perché sono io che mi sto inutilmente allarmando. Ma io devo aver studiato le relazioni fra i sistemi viventi, sono nessi certi: e dunque e allora?

Mentre me ne sto sbigottita anzi, tramortita, leggo ieri sul giornale di avanti ieri, perché la televisione non la vedo, del barcone affondato fra Malta e Lampedusa, 250 morti fra somali ed eritrei. Il barcone si rovescia, nel mare in cattive condizioni, quando nella notte viene avvicinato, nel buio, da una motovedetta italiana a fari spenti. La gente si spaventa si sposta, il barcone si rovescia. Un altro cumulo di vite pagate alla guerra. Che se non è quella per il petrolio è quella per lo sfruttamento ingiusto delle risorse, o quella che oggi chiede il rimborso di una storia coloniale che dura, mutando i modi i nomi, e le forme di governo, dalla scoperta dell’America, nel 1492.

Come se tutto questo non fosse già oltre ogni ragionevole portata del pensiero, ascolto per radio stamattina, prima un professore di Napoli che si lamenta della puzza costante dell’immondizia bruciata per strada che è pari per disgusto a quella dell’immondizia non bruciata, che marcisce in montagne fra le strade, e poi in un’altra trasmissione, stamattina avevo voglia di farmi del male, una intervista a tre intellettuali iraniani. Parlano della durezza del regime, della tragica dittatura a cui sono costretti in nome di una strumentale interpretazione della fede della religione, migliaia di donne e di uomini. Della pericolosità di questo regime che ha sicari in ogni parte del mondo per cui anche la protesta, altrove dall’Iran, è assai pericolosa. Loro parlano e so con certezza che la nostra indifferenza, la loro solitudine, è in fondo la sconfitta della loro causa. Ci sono cose da soli non possono essere affrontate. Ma la democrazia in fondo a questa solitudine condanna. Che chi ha il privilegio di goderne, anche solo, un pochissimo, un frammento, qua se ne sta tutto raggomitolato nel suo bozzolo di benessere, per quanto piccolo e modesto, e precario esso sia. La democrazia ha costruito una classe di umanità, che si fa i fatti suoi. E così facendo condanna tutto il resto dell’umanità, e anche se stesso -è solo questione di tempo- all’estinzione.

Come si fa a non vedere una così grossa? Forse proprio perché è grossa. Un uomo dell’Universo non vede nulla perché in esso è immerso. Vede dell’Universo, niente. La poltrona di vimini su cui appoggio mentre scrivo qualcosa che l’universo non può raggiungere. La cassetta postale di dio chissà in che pianeta, fuori dal sistema solare, fuori dalla via Lattea, si trova.

Eppure io che faccio? Continuo a intossicarmi di notizie che non posso cambiare, ed è questa la ragione più grande della tossicità di ciò che accade, oppure continuo ad ascoltare a leggere a scrivere? Faccio un aeroplano di carta con questo foglio, adesso. E anche, come ieri sera, decido di tornare apposta sui miei passi per mettere nel cappello di un uomo di colore, alto, magro, giovane, che se ne stava nella penombra di un parcheggio della città, a mettere cinque euro. Non erano niente per me, ma lui si è piegato fino a terra per ringraziarmi. E io da quel momento non ho camminato più, ho strisciato. Da così piegata scrivo queste righe. Se le leggi, se lo ritieni, fanne un aeroplano pure tu.

lunedì 28 marzo 2011

nel pubblico

metto a posto la cartella di maestro di Gigi Gherzi, ha provato Lezione di classe qualche giorno fa, in provincia di Milano. Mentre guardo veloce i fogli su cui gli spettatori appuntano i loro pensieri, sono catturata da una scrittura larga, che prende molto spazio: non ha paura di scrivere questa mano.
Leggo:

La chiamavamo Singer
come la macchina da cucire
forse perchè cuciva i pensieri ancora sparsi
i giochi
le bugie del mattino

So che oltre a noi, sue prime allieve,
amava moltissimo le rose.
Dicono fosse maestra di innesti -
nuove gemme in antichi rosai-

A volte ho l'impressione di sentirne il profumo.

martedì 22 marzo 2011

che paura!

Gigi Gherzi: e chi è? Silvia Civilla all’altro lato del telefono, a Nardò, mi dice che è un regista, un attore: conosciuto, bravo che fa un teatro in cui gli spettatori sono parte attiva; scrivono con l’attore il testo di quell’incontro. Silvia dice che stanno mettendo su uno spettacolo che si farà nelle scuole per sessanta spettatori che saranno divisi in due vere aule scolastiche e staranno con due maestri distinti, lei e Gigi. E’ un lavoro sulla condizione dell’asino, ma più in generale sulla scuola come istituzione e luogo di relazioni fondative della nostra storia.  Una occasione per ricordare il tempo in cui abbiamo imparato o cercato di farlo. Perché, come fu, quale era il contesto: i compagni i maestri i luoghi il tempo. Quali i libri gli arredi gli abiti le cartelle i quaderni, le penne. Io ci sono stata alla lezione di classe quando, tre mesi fa, i due attori fecero la prova aperta, in due sere distinte sì. Ci sarei andata, se non avessi avuto come motivo, quello di verificare che quanto avevo fatto come materiale d’aula per questo spettacolo, funzionava? Ma certo che no. Io passo la vita a difendermi dagli attacchi concentrici aggressivi rumorosi di tutta questa immensa offerta culturale che ci circonda. Prendi me, no me. Dai guarda qui forza: mi vedi? Ascolta la cosa importante che ti devo dire. Uffa. E il silenzio dove sta? Più passa il tempo più io cerco quello. E il vuoto anche. Ma se nelle prossime sere volete comunque andare al cinema leggere un libro ascoltare un disco, se volete proprio consumare cultura, vi esorto a fare un passo falso e passare dalla parte di chi la produce. A Nardò, la prossima settimana è in cartellone in diverse scuole, la sera, lo spettacolo Lezione di Classe. E’ un teatro che si scrive anche con le storie di chi è presente. Se vuoi tornare a scuola, ritrovare il tuo banco, i tuoi maestri, i tuoi vecchi compagni, le ragioni per cui fosti o no bravo, e quelle per cui furono bravi e cattivi gli altri, puoi farlo. Essi sono lì. Come compagna di classe però, novità, riscrittura della memoria, trovi pure me, Ciulli Teresa. Sì ero timidissima, mi vergognavo perfino di esistere, condizione che persiste pur avendo maturato un insano egoismo; non capivo niente di matematica perchè nessuno me la insegnava, sapevo leggere e disegnare benissimo. Due abilità naturali che mi hanno consentito di trovare una strada, secondaria di terra battuta da non consigliare a meno che non hai come me una famiglia alle spalle. Non sono un grande acquisto nella tua classe, lo so. C’è solo una differenza che posso far pesare. Io mi porto dietro i miei cinquanta e tu ritrovi i tuoi tredici, dieci, quindici. Sei. Eppure sarò dietro al banco insieme a te. Una ripetente all’ennesima potenza o una scherzo da macchina del tempo. O un dono, l’unico che posso farti, dell’arte. Quell’esperienza che consente di connettere ciò che altrimenti resterebbe separato: il visibile con l’invisibile, il vero con il falso, il possibile e l’impossibile. E, disegnato il ponte fra loro,  nascere alla conoscenza. Se crei una relazione fra cose, aspetti pensieri linguaggi mai connessi precedentemente, non si può  fare, conosci qualcosa che forse vale la pena di conoscere. Te stesso. Che paura! Che delusione....

lunedì 14 febbraio 2011


















Da tre venerdì leggo ad alta voce L'eleganza del riccio, di Muriel Barbery, edizioni e/o. Dalle 15.30 alle 17.30. Gruppo lettori Germinazioni, Biblioteca degli aspiranti libronari, CIM, piazzetta Bottazzi, Lecce. Se qualcuno vuole inciampare insieme a noi fra queste pagine.....lo aspettiamo.
Teresa

giovedì 27 gennaio 2011

per le strade di Amsterdam nel 1941

Etty Hillesum in bicicletta
opera di Valentina Sansò, 2009

una pagina da aprire

Lettera alla Redazione Fahreneit, RadioRai3, per la Giornata della memoria



la voce di Etty, insieme alle altre:


Un'altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l'ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi. E perciò sono molto più familiari e assai meno terrificanti. Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi possano crescere a tal punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime: così, grandi edifici e torri, costruiti dagli uomini con le loro mani, s'innalzano sopra di noi, ci dominano, e possono crollarci addosso e seppellirci.




pagina 102
Etty Hillesum, Diario, Adelphi



Cara redazione, la figura di Etty Hillesum è estrema; non si lamenta del drammatico destino che incombe progressivamente su di lei, ebrea olandese, ma lo include nell'esperienza della vita. Una esperienza che conosce e sa il male in primo luogo in se stessa. E se io per primo dentro di me non sono in grado di controllare il mio male come posso chiedere all'altro di farlo. E' una posizione di impietosa autocritica. Lei si occupa in quegli anni, dal 1941 al 1943, morì ad Aushwitz in novembre, a sgombrare il male da se stessa. E così facendo, come annota sul quaderno, ad aiutare Dio, a sorreggerlo. Lei non si aspetta aiuto da Dio, glielo offre. Rileggo per la terza volta le sue parole a distanza di anni, due dalla penultima e mi accorgo di essermi indurita nel frattempo. Dalle pagine di un libro puoi anche misurare negli anni il tuo grado di evoluzione o di degrado, di rassegnazione in questo caso. L'effetto che provo a rileggerlo oggi è drammatico per questa fotografia di me che emerge dal fondo del libro. Oggi penso che la sua posizione, potremmo definirla di un pacifismo blindato inossidabile, coerentissimo fino al'ultimo, non ci avrebbe salvato dalla dominazione dei fascismi, che dobbiamo la nostra libertà e l'apertura di quei cancelli di Auschwitz oggi, sessantasei anni fa, a uomini che hanno imbracciato i fucili e sono saliti sui carrarmati e sugli aerei e sbarcati da un gommone andando incontro al fuoco. Eppure queste due posizioni sono probabilmente necessarie, vere entrambe. Perchè se è soltanto la violenza a portare pace, essa non può che essere mantenuta, governata, da altra violenza ancora. La pace sta in un atteggiamento delle coscienze come quello che Etty praticò. Il male si addomestica in se stessi e per farlo lo devi prima di tutto vedere, riconoscere, chiamare per nome col suo nome. La nostra cultura di base, quella che ci viene da famiglie isolate nelle città, quella che ci viene dalla scuola e dalla televisone, quelle insoemma su cui poggiano i nostri consumi, su questo versante è rimasta nana, non è sufficientemente cresciuta, ecco perchè siamo in pericolo. Non riconoscendo quanto i nostri stili di vita i nostri atteggiamenti siano predatori verso gli altri popoli , le culture e l'ambiente, acciecati dal compulsivo bisogno di consumare, possedere, piuttosto che da quello di condividere, conoscenza sentimenti saperi e beni, stiamo dando grande spazio al male, alla rapina, alla sete di potere. Come ci si sveglia da questa trance da questo stato soporoso in cui pariamo essere caduti in tanti? Non lo so. Ma certo adesso metto i paletti a questo sentimento di rassegnazione, lo lego al palo e io sono libera di spingermi fin qua. Fino a questa soglia a questa porta elettronica che si apre sul mondo. E la apro anch'io oggi, lo stesso giorno in cui furono aperti i cancelli ad Auschwitz. Qui, su questa doppia soglia, sta Etty.