Non so chiamarti. I titoli mi vengono sempre alla fine delle cose dei processi delle storie che racconto, per immagini o per testo. Che racconto ai bambini durante un processo di educazione e autoeducazione alla bellezza e allo stupore che dura anche un intero anno scolastico. E così non so dare il titolo a questo che oggi, stamane, è solo un bisogno. Rendere pubbliche le mie tracce di questi anni. Il sito che avevo messo su e pubblicato nel 2002, opere di carta, non è mai stato abitato. Non conoscevo il linguaggio che mi consentiva di entrarci quando potevo volevo sapevo, necessitavo. Così quella casa, nata già con le tubature sgocciolanti, ha continuato a perdere acqua senza che io riuscissi a fare nulla per lei. Troppo complicato. E’ rimasta così in tutti questi anni. Una casa con le porte e le finestre aperte ma in realtà disabitata. Me ne rammarico fino a un certo punto. Forse cercavo quello che alla fine solo in questi mesi ho trovato. Uno spazio in cui abitare in questa dimensione immateriale e affascinante del web. Ma anche complicata pericolosa superficiale. Una superficie che porta all’estremo i nostri tic le nostre nevrosi le parti infantili di noi ma anche quelle serie. E’ serio infatti per me adesso il bisogno di condividere il patrimonio di pensieri e di passi compiuti in questi anni, quasi dieci ormai. Mi sembra di abitare in un luogo deserto. Quello che lancio di qua sono aerei di carta. Forse così posso chiamare il mio blog. E disegnare, o provare a farlo, traiettorie in cielo che vanno verso Nord, l’arte. Verso Sud, la scrittura. Verso Est, la famiglia e gli affetti e verso Ovest, i conseguimenti, gli obiettivi, le storie e le scoperte del mio fare e del nostro: perchè sono diversi anni ormai che immagino storie che riguardano e che si fanno, e che realizzo insieme ad altri con cui condivido una passione, due: l’amore per la bellezza la passione per la letteratura.
Al centro di questa rosa dei venti, di questo aeroporto virtuale, ci sono io e questo gesto nudo semplice vitale. Spostare di pochi centimetri e staccare da me separandomene, ciò che mi è accaduto di fare di pensare di vivere.Saranno pure tre centimetri più in là ma la tua mano che raccoglie quell’aereo caduto può decidersi di lanciarlo ancora una volta. Ne perderò allora le tracce fisiche ma non quelle per cui quell’aereo ho deciso di lanciarlo da qui. Per affidargli altri padri madri sorelle amici. Io da sola non posso dare a ciò che faccio la ragione per cui lo faccio. Sospendere incantare sciogliere il tempo e trasferirlo altrove. Su un foglio di carta tenuto forte con le loro mascelle da queste formiche che sono le parole; da questi segni di matita che sono l’eco delle mie scarpe.

giovedì 17 maggio 2012

Certe notti sembra un tetto

domani al Castello di Copertino, in provincia di Lecce, alle 11.30 incontro un pubblico che non conosco; studenti, bambini, forse qualche adulto. E' in corso lì in questi giorni una manifestazione giunta a non so quale numero di edizione, si chiama il Veliero Parlante, la organizza una giovane preside che cura una rete di formazione per le scuole, Rete Infanzia Salento, si chiama, la preside invece, Ornella Castellano. Quest'anno la manifestazione è dedicata a una donna, una preside che io ho conosciuto quando ho lavorato a San Donato nell'ultimo indimenticabile Pon che ho messo su, era il 2008,  puntellandomi sull'entusiasmo e  sull'istintiva animale bravura di Clara Russo, io penso da sempre che lei sia una levatrice, una che fa nascere da chi ha di fronte, i suoi talenti: glieli strappa pure con i denti se lo ritiene necessario; non si preoccupa di far male. Ritiene peggiore il danno di tenere dentro i doni, piuttosto che sgualcirli un pò per farli venire al mondo. La preside di cui parlo, a cui è dedicata questa edizione del Veliero parlante, una donna col sorriso pronto a fiorire, una di quelle persone che mette avanti la fiducia verso gli altri piuttosto che la sfiducia, era e nella memoria che le cose belle sempre innaffia è, Raffaela Carlino.
Sono  contenta anche per questo di stare domani lì, a Copertino, al castello, bellissimo per inciso, sì, alle 11 e 30. Per portare il mio sorriso a Raffaela, mi devo far bella domani, Raffaela nel suo cielo mi vedrà e mi rimanderà l'affabilità la disponibilità, la curiosità, con cui mi ha sempre ricevuta. E contenta perchè farò vedere alcuni dei libri scavati nel 1997, mostrerò un bel lavoro di animazione visiva che ho fatto su quei libri che si trova pure sul mio sito ma bisogna cercarlo perchè se ne sta troppo bene nascosto. Troppo.
Racconterò domani di tutte le volte che i libri mi hanno dato riparo, sono stati per me dei tetti sulla testa. Delle case. E delle due volte in cui questo non è successo, nel 1989 e in questi ultimi cinque mesi, e perchè secondo l'analisi che ne ho fatta io. In ultimo mostrerò quatttro libri d'artista, bellissimi, che mi ha fatto vedere la maestra Clara, sono di una sua giovane scolara di nove anni, Sara, e poi il libricino tirato giù da una mamma dal blog che Clara aprì in occasione di quel magico Pon e che poi Clara ha curato, con infinito amore e creatività, e rinnovandosi ogni volta, fa magie per i suoi piccoli, la strega Clara ama chiamarsi potterianamente, dove si cimentano quasi due generazioni di fervide menti, fra cui oggi, Cristian e Monica.
Questa sarà la mia scaletta.
Se volete venire io sarò contenta.
Di raccontare ancora una volta una delle più belle avventure che conosco.
C'era una volta una bambina che all'età di sette ebbe da sua madre come regalo un libro, Il Lampionaio di Cummings. Entrandoci dentro scoprì.........


.............a domani!

sabato 5 maggio 2012



Il plesso Bartolo Longo, a Latiano, era un sacerdote Bartolo Longo, oggi è un beato, una scuola elementare dove ho svolto la seconda puntata di un laboratorio dedicato al libro di Bruno Munari Cappuccetto Rosso, giallo, verde, blu e bianco, è formato da alcuni padiglioni. Una metà, sono vuoti. Forse lì ha frequentato la scuola il mio Giovanni Rubino, e sua sorella Margherita. E il loro fratello Fulvio. A distanza di anni, e molte e dolorose vicende che riguardano me e loro, come tutti, tutti noi nessuno escluso, io sono entrata in quella scuola per portare una esperienza, un pensiero, in cui l’arte, la narrazione, cerca di cucirsi insieme alla mia vita oggi e a quella dei piccoli che incontro. Ho cercato, piuttosto male questa volta, di tenere insieme tutti questi livelli. No, non è stato facile, anzi. Difficilissimo. Come quando si fanno le cose per forza, costringendosi. Come quando si fanno le cose per gli altri, e tu tratti te stesso come un altro. E quindi non ti ascolti.
In quella scuola c’è ancora oggi, a distanza di giorni, una nevicata di errori. Quando abbiamo attraversato la storia bianca di Munari, degli errori abbiamo parlato. Cappuccetto non vede il lupo, né il lupo lei. La storia ha come aiutante, la neve: il caso. A volte però i nostri limiti non ci aiutano, al contrario, ci sono antagonisti. Ci inciampano. E gli altri, se ci vogliono bene, ci possono dire, guarda per me…. Ci fanno vedere un limite che possiamo spostare dentro di noi. Una cecità che possiamo accendere. Perché prendersela? Essa è l’inizio di una nuova storia. Se l’errore viene trasformato. Non viene messo all’indice, non viene colpevolizzato. Capisco bene da me che ci sono errori ed errori, ed è giusto affrontare le responsabilità che comporta la nostra mancanza di prospettiva. Essa però non è solo una colpa e basta. Siamo esseri limitati. Dalla nostra storia personale, dal nostro tempo storico, dalle nostre potenzialità. Ma quel limite è una risorsa. Perché segna un punto di partenza. Se non lo paragono al punto di partenza degli altri ma al sorgere del sole, alle 5.30, di stamattina. Ho alcune ore per sciogliere il mio errore al sole. Quelli nostri; quelli dispersi sul viale della scuola ci resteranno per un altro po’. Fino a giugno. A settembre, quando i miei amici saranno in terza insieme alle loro maestre, che sono contenta di avere conosciuto, tutte, anche quelle della "scuola dei giardinetti", da ognuna, come da ognuno dei bambini, ho preso un frammento di verità, allora, a settembre, gli errori saranno spariti. Sarà rimasta invece l’ombra di qualcuna di quelle parole sul nostro cuore. Quella noi adulti dobbiamo imparare a liberare. Dentro noi stessi, scioglierla. Basta alitarci sopra, prendere la parola. Agirla. E se sbaglio, è l’inizio di una nuova storia.


dal 12 al 25 aprile sono stata impegnata a Latiano, in un laboratorio voluto per la settimana della cultura dall'assessore Maria Concetta Milone che ringrazio per l'opportunità di scambio e di conoscenza, di me e degli altri a cui sempre il lavoro apre. Ringrazio anche la maestra Rosanna Pizzi che ha coordinato e davvero voluto la mia presenza a scuola. E tutte le maestre: Giuseppina, Ofelia, Angela, il maestro Gennaro, e poi Rita, Raffaella e Grazia, la quale conosce una formula magica per acquietare e incoraggiare i suoi piccoli. Ciao, a voi tutti. Ciao, giovanissimi amici.












domenica 15 aprile 2012

cento di questi giorni

oggi sarebbe stato il compleanno di padre Giuliano; dell'uomo che ha cercato di proteggere la bellezza e di promuoverla e di realizzarla in tutta la sua vita. La sua intelligenza l'ha spesa e utilizzata interamente a queso scopo, lottando contro l'inedia l'ignoranza la superficialità dei suoi confratelli. Era un frate francescano. L'avevo conosciuto nella priuma metà degli anni '90. Sergio  lavorava al Cim di Lecce con un padre Corrado, un confratello di Giuliano. Corrado ci portò a conoscere alcuni luoghi belli della sua vita e a condividere con noi alcuni pasti nel convento di Leverano dove all'epoca viveva. Forse, era Leverano. I conventi un pò si somigliano e per andare a trovare padre Giuliano negli anni successivi ne abbiamo visti alcuni. Quello di Leverano resta il più importante, perchè lì padre Giuliano aveva stretto amicizie che poi io condivisi, come quella con Pia, una donna generosa e sorridente che mi trattò da figlia, lei ne aveva una che viveva fuori. Padre Giuliano mi insegnò a cucinare le melanzane come se fossero bistecche e un sugo con i funghi e l'alloro. Era un cuoco eccellente, come eccellente ogni cosa che faceva. Perchè era innamorato della vita perchè la sapienza lo abitava anzi era lui ad abitare nella casa della sapienza; uno dei suoi inquilini più di riguardo. Solo perchè non ha mai abbandonato la presa con ciò che con la sua vita poteva fare sulla Terra per difenderne un frammento solamente. A quel frammento non ha mai rinunciato. Ha riparato vecchie radio e vecchie telvisioni e vecchi ferri da stiro e impianti elettrici e chissà cosa e quanto altro. Studiava, cercava pezzi nel ventre da rigattiere del suo laboratorio, e si applicava e ci riusciva sempre. Si prendeva il tempo non che ce lo avesse, nessuno ce l'ha; se lo prendeva. E mentre riparava ascoltava la musica classica, Beethoven gli piaceva moltissimo. E dopo, si prendeva il tempo, non ce lo aveva, come nessuno di noi, se lo prendeva, e leggeva Dante; mi ha regalato una edizione della Divina Commedia. Leggi Teresa, io non l'ho ancora letta. Non ho tempo, mi sono detta. E' un alibi. Io nella casa della sapienza mi ci sono affacciata una volta, dalla finestra. Poi qualcuno mi ha chiamato da basso e io sono andata via e da allora non sono più tornata. Sto sotto il portone adesso. Busso. Oggi è il compleanno di padre Giuliano e io voglio fargli gli auguri. Cento di questi giorni! Di bellezza incarnata nel fare. Ovunque essa riesca generarsi a prodursi ad affermarsi, lì, oggi ci sei anche tu, padre Giuliano. Ti porto il mazzo di tulipani: decine di corone pronte ad aprirsi sulla tua grande testa bianca; una corona di capelli, un leone pieno di libertà. L'apertura della tua mente è la finestra più importante che hai lasciato aperta andandotene. Da qui vedo che la bellezza non si difende perchè durerà per sempre, ma perchè deve durare oggi. La bellezza che ha a che fare con la vita; c'è un nodo fra le due verità che se sciogli se rompi, ti condanni a un esilio. Da te stesso. Puoi sempre stringerlo daccapo però, il nodo. Non importa se cominci dalla bellezza o dalla vita. E' la stessa strada presa in due sensi diversi. A metà, di quella, ci si ritroverà.



martedì 10 aprile 2012

Torno a scuola

A Lecce.
il 13 e 14, questo
in due aule della scuola elementare Cesare Battisti
lo spettacolo di teatro
Lezione di Classe
in aula, con gli attori_maestri Gigi Gherzi e Silvia Civilla, i miei segni.
Uno spettacolo che ha bisogno della memoria e del desiderio di guardare da altri punti di vista i nostri anni di scuola; i compagni, i maestri. Noi, lì, allora.
E' il teatro dello spettatore del regista_attore Gigi Gherzi.
Lo spettacolo è per 60 spettatori_alunni. Il 13 e 14 aprile, alle 21.
La prenotazione obbligatoria; la prevendita a Lecce, presso il Castello Carlo V, 0832 246517
il biglietto costa 10 euro.






































una produzione TerramMare Teatro, Nardò
0833 571871  http://www.terrammareteatro.com/

venerdì 6 aprile 2012

il nUovo di Vittoria

                                         a Vittoria Facchini

La più bella lettera d’amore che mai sia stata scritta, sta, fatta tutta a pezzettini, sotto l’albero di melograno, entrando a destra nello spazio quadrato del mio giardino. Ieri ho distrutto, una ad una, le sue indimenticabili pagine. L’amico Ruggiero, il giorno prima mi aveva consigliato di spruzzare sopra la vernice trasparente, in modo da chiuderle in una pellicola protettiva che forse avrebbe fermato il processo di autodistruzione che su quelle pagine era già cominciato, il giorno stesso in cui Vittoria me le ha scritte, disegnandole, una per una. La mia lettera d’amore, la più bella mai scritta, forse proprio perché non potevo conservarla, è stata scritta su dodici uova. Tatuata sui gusci. Ogni uovo, una pagina con una rima e un disegno: per me.
Vittoria le aveva confezionate lasciandole dentro i loro due involucri, rigidi come gusci di tartarughe. E scritta, anche su quelli, una lettera divisa in due parti: parole di un fiume che si è fatto strada fin qui, rompendo gli argini. Che l’affetto quello fa, rompe e trascina via ogni barriera. Ogni ostacolo. Vittoria mi ha fatto dono della sua unica e sola capacità di intervenire su ogni dove su ogni più piccolo indizio di legame, per farlo fiorire daccapo. Anzi, per farlo nascere per la prima volta. La aspettavo nei giorni scorsi Vittoria, con il desiderio di chi aspetta qualcuno con cui condivide un grande segreto, l’accesso all’arte, la sua chiave fra le mani, l’aspettavo la domenica precedente all’inaugurazione della mia mostra, qui, nello studio dove ho trascorso gli ultimi undici anni, dodici, della mia difficile condizione personale. Me l’aveva solennemente promesso. Ma le solenni promesse di Vittoria, anche quello è un aspetto che condivido con lei, sono barchette in un mare assai volubile. Perché decine di variabili si muovono, sotto e sopra quello scenario. Variabili che noi stesse mettiamo in atto senza volerlo. Come tutti, forse. Tranne proprio qualcuno che invece tiene molto in considerazione la sua parola, prendendola così tanto sul serio da farsene ammazzare; o ammazzare a sua volta. Sono tutti dolorosi paradossi che producono giustizia solo volta per volta, esaminando la cosa, la circostanza in sé; ogni volta senza pre-giudizio. Io e Vittoria con le parole un po’ ci giochiamo, cercando forse dentro di loro, nella loro pancia nel loro segreto, un ingresso inedito, non quello normale. E allora l'agiamo, la pronunciamo mantenendo uno sguardo divergente su di essa: un alito di vento appena turbolento, l’apparizione di una grande nave lungo la rotta della nostra navigazione, o semplicemente il colore, indecente per la sua bellezza, di una nuvola, già ci porta in un’altra direzione. Perchè noi siamo radar di segni tanto elementari che gli altri li scambiano per alito di vento, per bastimento, per nuvola, e invece. E invece Vittoria non venne.
Un pasticcio linguistico un inconveniente appena trascurato di un appuntamento buttato lì, all’improvviso la incastrò. E io rimasi senza poter issare quella bandiera sulla mia arca. Altre cose poi accaddero. Perché il tempo mi si mosse fra le mani per issare un’altra bandiera, certo era completamente diversa, su questo momento della vita: il mio studio, la mia arca fermata lungo la rotta in tempesta e diventata porto. Luogo di incontri di scambi di traduzioni. Di crescita. Perché da se stessi si impara sempre; figurati dagli altri. La mostra l’ho tenuta aperta anche la settimana dopo, scrissi una mail, Vittoria mi rispose. Era in partenza per Bologna ma sarebbe tornata in tempo per quel fine settimana. Le scrissi che l’attendevo con le uova in petto. Una bellissima espressione che mi ha insegnato Vito Clinca, una persona importante nella mia storia adulta. A Vittoria piacque quell’espressione: l’attesa come momento colmo di immensa emozione e anche concentrazione, delicatezza. Un’assenza che chi attende riempie col suo desiderio dell’altro. Vittoria questa volta la sua l’ha mantenuta. E’ arrivata domenica pomeriggio recando due involucri di carta stracolmi di cuori. Li ho aperti due giorni dopo: si è spalancata davanti a me una bellezza travolgente. Sopra le custodie di plastica due lettere; due custodie di calligrafia a chiudere in due confezioni , sei pagine uovo per parte: dodici pensieri dodici immagini che mi hanno abbracciato accarezzato innamorato tenuto forte con una presa da carro attrezzi, coccolato, incantato portato: dentro di me. Su un tappeto volante di meravigliosi disegni, matita e pastelli, e ogni disegno-uovo, aveva la sua corrispettiva rima-uovo. Una frase per me. Una poesia di nome Teresa: dodici strofe, dodici indimenticabili illustrazioni.
La mia lettera d’amore ha cominciato a puzzare qualche giorno dopo. Nell’interno delle uova si era avviato il suo processo di decomposizione. Erano nella bellezza diventate inavvicinabili, anche per me. Le ho fotografate, ma non ero contenta. Meritavano di essere conservate nel modo più giusto; nella memoria. La mia lettera, la più dirompente lettera d’amore mai ricevuta, dovevo conservarla per sempre valorizzando proprio la sua immensa fragilità. Ieri, dopo mezzogiorno sono scesa in giardino e mi sono fatta strada in basso con l’aiuto di una paletta verso le radici dell’albero di melograno, ho rotto quei gusci li ho separati dalla parte degradata, la mamma di Vittoria li aveva bolliti, fatti sodi, e li ho sistemati in quel nido di terra. Prima però me le sono guardate le mie pagine, una ad una, di n-uovo, per l’ennesima volta in questi giorni in cui non sono riuscita a staccarmi dalla loro potenza. Le loro parole me lo sono fatte scendere nel cuore come si prende a grandi sorsate la medicina che ti salverà la vita.
Poi ho coperto tutto con foglie e terra. Ho innaffiato. Me stessa. Con l’amore che da un altro mi viene. Che l’amore quello, il suo dono, lo riceviamo solo dopo che noi tiriamo fuori quello che abbiamo per noi stessi. Un amore tormentato il mio per me, ma è pur sempre amore. Non sono facili gli amori mai. Non fanno eccezioni quelli che dobbiamo nutrire per noi stessi. Cara Vittoria, la tua lettera vivrà per sempre. Si mischierà in questi giorni alla terra e il melograno se ne nutrirà. Quando raccoglierò i frutti, in autunno, ci troverò, scritte, su quei chicchi rossi, il tuo grande amore. La tua potenza visionaria il tuo passionale coraggio e la dolorosa irruenza che ci è d’inciampo. La fame che non si placa se non nel gesto: nel momento solenne in cui facciamo uscire un pulcino da un uovo che nessun altro vede oppure un disegno, da un melograno.



martedì 5 aprile 2012, Lecce



caffè in giardino, 1999

mercoledì 4 aprile 2012

a Bari, nella pancia della balena



La fotografia è stata scattata nel 2006 a Bari, in via Datto 14. A Poggiofranco, vicino a quella chiesa in cemento armato, bruttissima. Prima di cominciare l'ultimo ciclo di mostre che ho fatto, Rose d'inverno; era il 2006.
Da qualche giorno invece, a Bari, in Via Datto 14, a Poggiofranco, vicino a quella chiesa in cemento armato, bruttissima, nel negozio di cornici di Ruggiero Gregorio, che sta sotto il balcone della signora Dentico, una amabile signora avanti negli anni che fa da mamma a un intero quartiere, e lo fa scendendo un paniere di vimini dal suo balcone dove dentro sistema i più buoni panini della città, per non parlare delle sue focacce, da qualche giorno ci sono anch'io nel negozio di cornici di Ruggiero dove ci lavora pure Enzo, ci sono dico due quadri miei. Stanno lì perchè Ruggiero vuole che un segmento del mio lavoro stia a Bari. E pure io lo voglio. E ci stia stabilmente. Se avete voglia tempo curiosità, e piacere a fare due chiacchiere con una delle persone per me più capaci di tradurre l'arte nella vita, andate in Via Datto sotto il balcone della signora Dentico. Dentro la pancia della balena. Che il negozio di Ruggiero quello è. Una balena che in altissimo e profondisimo mare, si è mangiata tutto quello che galleggia. Lei, sapete, la balena, non mangia i pesci. Mangia il plancton. Lei diventa grande nutrendosi dell'invisibile: l'animale più grande del pianeta.

Vi allego il numero di telefono del negozio e il cellulare di Ruggiero.
teresa ciulli

ruggiero gregorio: negozio, 080 5017977; cellulare, 3294141224






sabato 31 marzo 2012

echi catturati

Eliana Forcignanò, una giovane scrittrice; una poetessa. Crocetti, l'editore, ha pubblicato in dicembre una sua raccolta di poesie. Raccolta, si dice, come del grano e dei fiori nei campi.
Lei ha fatto visita nel mio studio, è stata la terza visitatrice, la mattina di lunedì diciannove, due ore dopo Amalia e Alvaro.
Lei, ha curato per me, il comunicato stampa e la sua diffusione. Lei, piena di antenne di silenzio di concentrazione: un radar puntato verso gli altri umani.
Grazie Eliana. 

http://culturasalentina.wordpress.com/2012/03/28/unarca-di-storie-alla-scoperta-dei-mondi-comunicanti-di-teresa-ciulli/


















Di me è rimasta una scarpetta
tutto il resto si è dileguato nel temperamatite
nel corso di molti anni.
Non sapevo, allora,
di stare temperando me stessa,
consumandomi.
Se l’avessi saputo, se qualcuno me l’avesse detto
avrei scagliato quella matita fuori dalla finestra
magari colpendo un passante.
Un passante ho colpito veramente,
più d’uno credo temperando,
e me stessa, certamente.
Me stessa più di chiunque altro.
Che di me oggi, una scarpetta è rimasta.
E decine e decine di quadri che sono giunti
con un’astronave da una terra senza abitanti.
Le mie immagini a quella terra sono servite
per popolarsi di storie
di delicate figure di donne con le scarpe dal piccolo tacco.
Esse hanno raccontato moltissime cose
di sé
nella forma indiretta e ricca di porte, dell’arte.
Da quelle donne, altre si sono affacciate
da quelle figure, parole sono fiorite:
esse sono diventate campo
giardino, luogo vivente.
per chi le ha incontrate e amate.
Territorio di stupore
dove stare a guardare qualcosa che
non sta fermo come sembra ma, si muove.
Ogni giorno, con te.
Verso il nulla dove siamo diretti
o verso l’astronave da cui quelle immagini sono scese
per essere fatte
e imbarcate di nuovo
nelle case della gente.
Perché, quelle case, sono la nostra vera astronave.
Il sistema solare da cui per millenni ci siamo formati
in grembo alle stelle
per poi arrivare qui,
sulla Terra.
Per incontrare chi?
Noi stessi su un foglio di carta.
Noi stessi nel bacio tanto desiderato.
Noi stessi nella piccola mano di un bambino che ha paura di tutto.
Noi stessi nel pianto inconsolabile di una sorella tradita dalla sua bontà.
Noi stessi nelle storie crudeli di inverosimile e vertiginosa sofferenza
che sembrano colpire solo gli altri.
Noi stessi nel canto lontano di un uccello di cui non conosciamo il nome.
Noi stessi nella prova più difficile, essere soli:
trovarsi di tutto questo, solo una scarpetta in mano.
E, da quella,  disegnare il resto.
Tutto, pure l’astronave.



no! ecco l'altra
57 x 76

2012

giovedì 22 marzo 2012

il quattro è rimasto in tasca

fra tre giorni, l'Arca, parte
di mattina, pomeriggio e dopocena puoi ancora salirci su

Il quattro è rimasto nella mia tasca. Ieri, davvero, mi è sfuggito di contare quanti giorni mancano ancora alla partenza della mia arca. L’arcobaleno se n’è andato, è ripreso a piovere. Non aspetto la colomba, tanto se l’aspetto divento solo ansiosa e quella certo non arriva per fare un piacere a me, arriva perché, tante e molte cose, nel mondo intorno, si sviluppano secondo la loro natura e volontà e casualità. Ieri il mio conto alla rovescia è rimasto muto. Ho parlato troppo dentro di me, e questo mi toglie il silenzio che molto mi aiuta a vedere, molto mi aiuta a cogliere l’essenziale. Una vecchia malattia che ogni tanto si manifesta. In questo periodo in forme acute. Poi, stamattina, prendo la penna per scrivere a un amico che ieri è venuto a trovarmi e sento che in quella penna, io ci sono ancora, che fluisco docilmente dalla punta al foglio. Esisto. I miei pensieri si allineano anche se la calligrafia è abbastanza illeggibile, ma i pensieri invece lo sono, leggibilissimi. E questo mette un’ancora alla mia esistenza. Esisto ora sulla terra in un foglio di carta attaccato col nastro carta su un carta da imballaggio che da stamattina copre un quadro che ieri il mio amico ha deciso di portare via, spiritualmente, con sé. In questi giorni sono ricca degli sguardi che le persone che mi sono venute a trovare, adesso qui come in una preghiera le ricapitolo e le ringrazio tutte una ad una, i miei figli sono stati i primi visitatori, loro i primi sguardi che hanno risvegliato, dopo diciannove anni alcune storie, dal loro sonno. Sembra la favola della bella addormentata nel bosco. Forse lo è stata davvero. Adesso loro, i quadri dico, si sono stiracchiati, hanno sbadigliato e fatto colazione. Qualcuno anche, nelle parole di una nuova amica che è venuta a trovarmi, hanno approfittato dell’apertura dell’arca e sono andati via in questa spinta all’esodo che in questi giorni ho trasmesso loro. Mi appartengono ancora nella misura in cui oggi appartengono a un’altra; un altro. Raccontano la loro storia a qualcuno che quella storia ha amato a colpo d’occhio. Chissà come accade che due si trovano. Perché, certo, si stanno cercando. Io ho reso possibile l’incontro. Manifestando pubblicamente il mio bisogno di stare con gli altri attraverso questa forma comunicativa che mi sono scelta in questi anni per esistere. Per trovare ragione di vita e anche di equilibrio. La forma dell’arte. E’ un fragile contenitore, è di carta. Per questo Ruggiero Gregorio negli anni 90, custodiva quei fogli con così grande attenzione, e dedizione. Sotto vetro. Poi, per ragioni economiche, ma anche di peso e logistica, ho dovuto rinunciarci e buttarmi nella mischia così come il pensiero, che nel frattempo era diventato frettoloso inquieto ma anche pieno di segni vivi della mia persona viva alla ricerca di se stessa nell’esperienza della maternità che sbalza fuori dal mondo conosciuto, si andava caoticamente e sempre più frammentariamente, manifestando.
Ho scritto storie appuntandole, sempre di più, su fogli di fortuna. Pagine e pagine, e pagine. Mancano tre giorni e poi chiudo una parte di questi appunti. Devo liberare lo spazio perché altro deve accadere. Ma so che questi lavori queste opere di carta sparse qui, intorno a me adesso, non torneranno più a dormire. Esse sono presso chi le ha viste, ne ha goduto forse la loro presenza e anche portato via il messaggio che trattengono. Non è necessario comprarsi un quadro, anche se ha un prezzo simbolico, per amarlo. Uno ama anche quello che non sarà mai in suo possesso. Possesso fisico, intendo. Perché il possesso spirituale è sempre a portata di mano ogni giorno. Ogni minuto, ogni attimo della nostra vita. Basta guardare il grande spazio interiore che ci abita e essere felici di percorrerlo con lo sguardo senza riempirlo. Pr quello ci sono, bellissime, le nuvole la fuori, il cielo con il suo grande chiarore, e di notte, le luci in lontananza. Tutto quello di cui abbiamo bisogno già ci appartiene. La possibilità di stendere la mano sulla guancia di qualcuno, per fargli una carezza. Quella non lascia traccia sulla guancia, sul tuo cuore e sul suo, sì. Eterno.
Ecco perché hai ancora tempo, fino a domenica, per privarti di un’opera di carta. Arricchendoti però, della sua unica, irripetibile, esistenza.
ti faccio una carezza
2007

martedì 20 marzo 2012

a chi guarda


In un attimo si afferrano tante cose. Se riesci ad appuntartele da qualche parte. Per questo ti consiglio di portare sempre con te una piuma raccolta al mare, tantissimi anni fa. Quando il mondo era calmo. Perché non squillavano i telefoni cellulari, non eravamo sempre raggiungibili, e potevamo sostare con il mondo. Andarcene a spasso alla sua folle velocità, 34 chilometri al secondo nello spazio, nel vuoto. Che cos’è poi il vuoto è una domanda da riempire, a meno che tu non abbia la saggezza di lasciarti cadere dentro o sopra, non lo so come si cade nel vuoto. In quegli anni, gli anni 90, io disegnavo con una tranquillità dentro che appartiene tutt'oggi alle divinità indiane. Quelle che se ne stanno a dieci braccia a raccogliere da ferme, nella posizione del loto, qualcosa che non si vede se non le guardi. Le loro mani pizzicano qualcosa. Il vento e quello che il vento porta: l’urlo di un bambino e il suo pianto, la disperazione di una mamma che ha perso la pazienza senza che lo volesse, anzi, voleva proprio il contrario. Com’è che accade che facciamo le cose al contrario io davvero non lo so. Me lo sono chiesta tante volte in questi anni mentre facevo cose che proprio non volevo, il problema è che ho continuato a farle. Ma succede anche a te? Le mani delle divinità invece pizzicano la loro ferma, tranquilla volontà che fa manifestare solo ciò che vuole, non il contrario. Negli anni 90 era facile per me fare proprio come desideravo. Non c’era nessuno, un piccolo intendo, un figlio, a farmi vedere l’altra metà di me stessa. Quella parte che, dopo la nascita di un bambino, scopre di essere cattiva. La mia grande opinione, la grande opinione che avevo di me, già nel 2000 cominciava a modificarsi. Avevo paura di diventare mamma. Paura. Non l’ho avuta così grande nemmeno quando sono stata malata e lì, certo, che ci potevo morire. Ma la morte quando sei nel cuore dall’amore non ti può raggiungere mai, nemmeno se ti ammazza. Perché chi ti ama poi sempre ti porta con sé. E’ l’eternità sulla terra a cui i buoni i giusti i belli i saggi hanno diritto; a cui hanno diritto tutti gli amori ricambiati. I cattivi e i cattivi amori, no. Ecco perché l’immortalità sulla terra come mamma te la guadagni solo dopo che il figlio è a sua volta diventato padre, e madre, e capisce cosa accade; che rivoluzione dentro la vita di chi cresce qualcuno, di chi ne diventa responsabile, per sempre.
E’ questa parola, per sempre, bellissima se gemma quotidianamente nella libertà di una scelta, ma si aggroviglia tutta e diventa un nodo su cui fai altri nodi nel tentativo di scioglierlo e ti cade addosso come una montagna, se non riesci a vederla per come è. Piena di porte, di soglie di usci di tappe di tacche. Piena di scalini, di curve di panchine. Di interruzioni. Di altre direzioni possibili. Un figlio è nello stesso viaggio che fai tu, non è diverso. Se nel frattempo scopri qualcosa, anche la lui la scopre. E se tu piangi, pure lui lo fa. E se decidi qualcosa la sua decisione pure è presa. Per ora, per oggi. Come per te. Ma finchè non capisci e soprattutto non accetti questo zigozago, e il dolore, i problemi che te ne vengono, non ti resta che buttarti nella mischia e prendere i fogli di carta così come vengono, nella furia nella fretta nell’approssimazione, prendere le idee così come sono e percorrerle subito. Anche se sbagli a disegnare se sporchi il foglio e se non ti piace quello che hai fatto capisci che ti devi fermare e mettere la firma. Per sempre, non esiste, se non nelle mani delle divinità indiane e nelle mie, molti anni fa, negli anni 90. Sono quadri bellissimi, perché anche non li rifarò più. Trattengono qualcosa, come la resina trattiene quella formica che ci cascò nel tentativo di raggiungere la briciola; e infatti l’amico Ruggiero fomentato e fomentante, tentò e credo riuscì a difenderli dagli oltraggi del tempo facendo loro intorno delle cornici bellissime, dei veri e propri cassetti. Delle teche, come quelle che custodiscono le immagini dei santi all’inizio del Novecento. Sono delle immagini sacre. Appartengono a un mondo da cui mi sono separata per sempre. Non lo rimpiango. Rifarei tutto, bè tranne qualcosa. Lì ero sola facevo accedere qualcuno solo se regalmente lo includevo nel mio spazio, e nel tempo che volevo; qui invece sono in gran compagnia, e io accedo allo spazio degli altri mostrando loro il mio desiderio bisogno, voglia di crescere insieme. Cadiamo tutti insieme, e insieme ci rialziamo. A volte per darci la mano ci sbilanciamo e chi ha aiutato uno ad alzarsi cade di nuovo. A me è capitato. Mi sono fatta male. Alle divinità indiane e ai miei quadri degli anni 90 non succede. Succede a chi, invece, oggi li guarda. Me compresa.



fu un'onda che mi portò
1995
61 x 52 x 12

martedì 13 marzo 2012

un segreto da restituire























ho intorno a me, per terra, sul grande tavolo quadrato dove disegno, le storie sotto il diluvio. Ho scartato gli involucri di carta da imballaggio, che tante volte ho aperto e chiuso. Sono uscite le bellissime cornici di Ruggiero Gregorio, il mio caro colto, sensibile amico che a Bari, ha curato in tutti questi anni il mio lavoro nel momento in cui usciva fuori e diventava pubblico. Ho con me in attesa, come sentinelle, il mio lavoro e i miei disegni in un arco di tempo che va dal 1993, quando ho cominciato a mettere le cornici intorno a quello che facevo, a oggi, anzi a ieri, il mio ultimo disegno, dieci dita non bastano, è poggiato sul tavolo insieme ad altri. Ho scritto anche il listino, domenica sera. Sono prezzi simbolici che consentono realmente lo scambio e la comunicazione con l'esterno di questa esperienza, di questa forma d'arte. Perchè per me oggi, primario davanti a tutto, non è tanto il guadagno economico che è sempre stato territorio così irraggiungibile, quelle frontiere non le ho varcate mai non ho quel passaporto, ma primario è fare entrare in dialogo e dare un'altra casa, un'altra arca, alle mie storie. Non mi appartengono.  Non sono mie. Qualcosa, qualcuno, una storia davvero speciale che ho alle mie spalle e che mi rende ancora forte pur nel momento di massima debolezza, me le ha messe in mano, date in prestito. Semplicemente perchè io veicolassi, le facessi uscire fuori. Oggi, in questi giorni cominciati ieri, sto finalmente mantenendo la mia promessa di restituzione. Io sono stata e spero di continuare a  essere semplicemente una medium.
Sono il trattino fra qualcosa che non conosco e qualcuno che in questi giorni mi contatterà  per venire a conoscere qualcosa che lo riguarda da vicino. Una storia di carta che, a sua insaputa, di se stesso ha raccolto un frammento della sua vita, che come a tutti noi gli è per gran parte, oscura. E' un pezzo di carta, un quadro che sta qui,  una debole luce. Rivela un segreto: ignoto solo a me. E a dio.




un segreto, 1996
58 x 98

lunedì 5 marzo 2012

separarsi da se stessi

Ho sempre avuto difficoltà ad essere mercante dei miei quadri. Forse perché essi, tutti, raccontano una storia. Sono le pagine della mia vita. Ma queste pagine, da anni, sono in un libro chiuso. Sta, questo libro, in una casa,il mio studio, che è diventato un luogo abbandonato. Da me, negli anni precedenti. Non perché non ci entrassi, ma perché ci sono entrata con tante fatiche, tante pene, tante difficoltà addosso. Esse si sono riversate sui miei quadri, le mie storie. Come un involucro che li separava dal mondo. Quello degli scambi. E’ vero, io non sono brava né portata a fare il mercante, a esserlo; non lo so fare. Voglio invitarvi invece, a salire su un’arca di storie. Troverete i miei segni tutti in giro: per terra, appoggiati in equilibrio fra loro, appesi anche. Così come li sto andando a sbrigliare, svegliare, ridestarsi. Puoi entrare nell’arca a cercare qualcosa. Qualcosa che ti parla. Perchè vorrei scambiare quei segni, se mai ne fossi interessato, a un prezzo simbolico. Ne ho già pagato uno io, e grandissimo, il più grande di tutta la mia vita, per averli tenuti qui. Muti.
Preferisco invece che così come sono si prendano lo spazio della parola e si mettano in dialogo. E che il loro prezzo non rappresenti più un ostacolo, o un danno. Essi sono pezzi di carta dove sta consegnato qualcosa che in altra forma non potrebbe esistere. I miei passi sulla terra. Valgono se si cancellano. Conta dove siamo adesso.

Da lunedì 12 marzo a domenica 18 marzo, sia la mattina che il pomeriggio che dopo cena. Chiamami per conferma: 333_9726501
teresa (ciulli)
Via Rossini 57, Castromediano, Lecce






venerdì 2 marzo 2012

La buona stella

Caro papà, due mesi fa il 3 gennaio, Rosanna chiuse, nel tuo scrigno terrestre ultimo, anche il mio biglietto di Natale. Mi commosse molto vederlo fra le tue mani bianchissime e belle che tante volte hanno stretto le mie, fin da piccola, per riscaldarle con il tuo calore. Avevi sempre le mani calde. Tranne quest’ultima estate, quando ti abbiamo ricoverato. Avevi riscaldato le mie mani per 96 anni. Un lunghissimo tempo. Tanto lungo papà che quando ti sei trovato quel biglietto fra le mani, anche allora lo hai fatto vivere. Io, che pensavo di non spedirlo mai più, che si era trovato addosso tutte quelle macerie, la mia vita e non solo, ho visto in me dopo qualche giorno, che quello mi veniva incontro, che si faceva spazio, lui, piatto come un topolino che vuole passare sotto la soglia di una casa dove sente odore di formaggio, e quell’odore fa miracoli sulle giunture delle sue ossa. Così, allo stesso modo, anche il mio biglietto è passato. E’ passato da lì, da quel mondo davvero inaccessibile e si è presentato dietro la porta della mia mente. Eccomi. Non buttarmi via mi hai detto; fammi viaggiare, fammi raggiungere le persone che hai conosciuto a cui hai raccontato negli anni qualcosa di te, della vita che andavi ragionando su un pezzo di carta, in un disegno, fammi diventare uno strumento che porta altro. Che cosa papà? Il diritto a vivere ad affermare i propri bisogni a far circolare le idee le immagini i pensieri che appartengono alla nostra storia. Qualcuno mi dice che sono fin troppo prepotente. Però è strano che io al contrario mi sia vissuta in modo così ribaltato, come una che subisce i conflitti. Qualcosa certo non deve aver funzionato. Non posso sciogliere l’enigma, forse non sarà sciolto mai più. Posso però aggirarlo. Come si aggira un ostacolo che sembra che occupi tutta la Terra e poi, quando ti metti in cammino, ti rendi conto che esso occupa solo lo spazio del tuo piede. E’ che lo guardavi così da vicino da non vederlo più in relazione a tutto il resto. Ecco perché papà è stato facile poi spedire il mio biglietto di Natale. Anche se difficile oggi, chiuderlo. Consegnare il libro, da cui ho tolto tutte le didascalie messe in bocca a Dickens, alla parola fine. Il biglietto che mi è tornato indietro da tanto lontano, lontano anche si è spinto. Così tanto che oggi non vedo più nulla di familiare intorno a me. Dove sono?
La penna è la mia sola ancora; o la punta aguzza di un compasso quella dove poggia, per capire, allargando il suo braccio, quanto spazio ancora ho da attraversare. Su una carta nautica dove però non c’è che il bianco. Io, però la destinazione la conosco. E’ l’isola che non c’è. Seconda stella, a destra. Quella che mio padre mi ha lasciato, andandosene.



tasca dove stanno le E senza accento
2012
libro d'artista

mercoledì 29 febbraio 2012

ho sete di me
2012
56 x 56


martedì 28 febbraio 2012




Uno fa un nodo a una matita
per ricordarsi di una cosa importante:
hai disegnato stamattina?
Hai tirato fuori il tuo dolore
la tua difficoltà
o hai lasciato che quelle prendessero il sopravvento
e ti lasciassero muta
incerta
insicura
a girare intorno a te stessa senza via d’uscita?
Un nodo alla matita uno lo fa
per fare uscire la pioggia dai capelli di una donna
che ha sete di se stessa
prima di ogni altra cosa.
Io l’ho fatto quel disegno.
Allora, il nodo, adesso, lo sciolgo.
Si, Teresa, scioglilo.
La tua donna che ha sete di sé è davanti a te, esiste.
L’hai tirata fuori dal nulla.
Vive adesso sul cavalletto. Si guarda intorno,
ha alcune villette, e finestre,
dall’altra parte del balcone.
Chissà se è contenta di stare al mondo e di stare qua.
Io sì, di lei.
Non perché è bella come avrei sperato
ma perché, invece, racconta un’altra storia ancora:
di tutta l’acqua che ho dovuto bere,
che anche altri, animali piante uomini, hanno bevuto
nei miliardi di anni scorsi,
per arrivare a tirarla fuori dal suo buio.
In realtà: dalla pena dalla rabbia dalla tensione,
oggi l’ho estratta.
Come un minatore ostinato me ne sono
andato lo stesso in miniera.
Ho dato colpi di sghimbescio
il martello mi è sfuggito più volte di mano
cadendomi sui piedi
ahia, ahia,
ma poi dicevo:
non fa niente
va bene lo stesso.
Questo disegno di me racconta:
di quanto io abbia avuto bisogno di lui oggi.
Per sciogliere un nodo che avevo in gola.
Erano lacrime:
acqua salata.




sabato 25 febbraio 2012





dieci dita non bastano
soprattutto se due sono impegnate a battere sulla tastiera
quattro, per parte, a pelare le patate
cinque a raccogliere da terra i panni sporchi
e le altre dieci a stenderli .
Dieci dita non bastano
ma neanche venti:
i buchi da chiudere sono
trentamila:
basta a fare quello che non si può fare.
Adesso mi siedo e guardo il mondo attraverso la mia gonna
il mio braccio
la tasca destra del cappotto
Vedo tutto un altro paesaggio.
Vedo un'amica che mi saluta e mi sta aspettando.
Adesso le dita mi conviene usarle
tutteeventi
per andare a trovarla.
Le mani, le dita, le devo poggiare sul volante
prima però, le devo staccare dalla tastiera.
Servono le dita, le mani,
a promuovere la vita.
Anche quella che pare un colabrodo.

Dieci dita non bastano
2012
57 x 59

giovedì 23 febbraio 2012

le notti in bianco

Sull’altopiano di Serrisi in provincia di Crotone, qualche giorno fa. La neve nei giorni precedenti aveva coperto ogni cosa, tranne gli alberi. Pini sparsi e soprattutto faggi spogli. Delle scope a testa su. Una trama di dita nude in una immobilità sonora prima ancora che fisica. Il silenzio è la neve. Essa non copre soltanto la superficie del mondo ma anche le sue urgenze passano in secondo piano. Come la terra possa sopravvivere a questa dura prova è per me un mistero affascinante. Al peso del freddo, alla  stagionale sepoltura. Fuori solo le povere costruzioni in cemento, l’altalena rossa, le orme di un cane affamato; fuori, la limpidezza del cielo che indossa il suo abito per la sera. Uno smoking di stelle affilate come punte di ghiaccio. Eppure laggiù, lassù, quelle son fornaci. La distanza è tale che non mi consente la giusta esperienza. Meno male che ci sono i libri per questo. E l’età in cui li ho letti; altrimenti sarebbe povero lo sguardo. Anche la neve è utile alla montagna, e forse anche agli uomini. Consente loro un riposo fisico che negli altri mesi dell’anno in quelle difficili condizioni ambientali non è possibile. Lavorare in montagna è certo faticoso per chi, come è accaduto fino ad alcuni decenni fa faceva il boscaiolo, e poi si doveva occupare di trasformare quella legna in carbone, un processo di estrema sapienza, enorme fatica. La civiltà della neve è legata al poco materiale. Ma al molto spirituale. Sarà quella lunga abitudine all’attesa, quel sintonizzarsi al silenzio dei mesi invernali, che il silenzio è una porta da cui passa tutto e nel passaggio si arricchisce di qualcosa mentre ne perde tante altre, perché tutto non si può avere. Sarà che in questa estrema relazione, gli uomini gli alberi gli animali le stelle il fumo che esce dai camini, condividono la stessa condizione, la pazienza; sarà infine per la bellezza elargita in fiocchi morbidi larghi bianchi leggeri come piume che si avventano su ogni cosa e li coprono di nulla. E’ l’esperienza della terribile potenza del mondo data in forma apparentemente magica ingenua inoffensiva. Se non fosse per quel freddo che ogni fiocco porta con sé e che ricorda che stai dentro la vita e da quella anche ti devi difendere; da quello che la vita porta come minaccia oltre che, sempre, come opportunità e dono. A te spostare ciò che sta sui due piatti della bilancia in modo che essi siano in equilibrio. Su uno di quei piatti, nei giorni scorsi c’era tanta neve, e così, sull’altro, ho dovuto mettere calore. Quello necessario per sciogliere dentro di me la paura che sempre mi porto appresso. E quando quella si è sciolta ho visto la bufera di neve per ciò che era, togliendo di mezzo tutto quello che mi infastidiva: ho spento dentro di me l’audio acceso al massimo dell’autobus su cui percorrevamo l’altopiano; ho fatto fuori le decine di persone con cui viaggiavo tranne il mite bravissimo  autista Rocco, da vera killer professionista; ho lasciato Alvaro in ammirazione davanti a un nintendo ultima generazione di proprietà di un ragazzino tecnologicamente educato, e ho visto. Viaggiando a pochi chilometri all’ora, lungo una strada stretta e bianca, ho visto ciò che la prima volta avevo visto nelle pagine di Guerra e pace. Perché Tolstoj mi ha fatto vedere, lui per primo, la neve. Me l’ha descritta, me l’ha consegnata intatta, terribile e luminosa, legandola al destino di Natasha che in quelle pagine era giovane e innamorata del principe Andrej. E ancora cantava con la sua bellissima voce. In quelle pagine si spostava con i suoi fratelli sulla slitta, era sera e una torcia era accesa di fianco al cocchiere, e la luna brillava sulla vasta distesa di neve che poteva essere a quel punto anche quella della luna. E io in quelle ore, anni fa, ero immersa in quello spazio: in una incommensurabile bellezza che è ancora lì. Intatta, nel libro. Ecco come è stato che ho incontrato, in un pullman dell’italviaggi dentro una cavaiola che solo una sintonizzazione radio casuale può determinare, il conte Lev Tolstoj in persona, sì lo scrittore. Si è seduto a fianco a me e con me ha guardato turbinare la neve sull’altopiano di Serrisi, e in quel momento mi sono ancorata, daccapo, al suo grande romanzo.  Ho agganciato il moschettone alla corda e mi sono arrampicata, daccapo, su quelle notti in bianco mentre leggevo il libro e risalivo controcorrente le pagine e mi facevo spazio largo fra le vite di quelle persone che ho imparato a conoscere, qualcuna ad amare, qualche anno fa e ancora daccapo, ieri. Ho riconosciuto la neve che Tolstoj mi ha descritto. Essa veniva dal cielo e veniva dal libro, da anni indietro. E ancora verso di me cade. Adesso pure, che attraverso la scrittura la prendo fra le mani e so che il mio calore la scioglie. La trasforma, ancora daccapo, in una pagina scritta. Un faggeto di lettere immerso nella neve della pagina dove ti sei avventurato. Troverò le tue orme domani. E saprò di essermi incontrata proprio qui e proprio con te. Al limitare del mio mondo. Al confine fra quegli anni e il presente. Sulla soglia fra il libro della nostra vita e quello che un'amica mi invitò a comprare. E tutto sta insieme se decidiamo di farne un pupazzo: una carota, un cappello, un nastro di fortuna e una tasca di neve dove mettere una penna, e un libro. Lo chiudo in una bella busta di plastica dove sta disegnato un pino e  un indirizzo di Camigliatello;  servirà a custodire il libro in modo che non si bagni. Così se passi dalla foresteria della Madonna Pellegrina a Serrisi quest'estate, aprila quella busta che al disgelo sarà finita a terra. Dentro c'è uno dei libri più belli una delle storie più grandi che ho mai letto a letto. Nelle mie notti bianche.







































notti in bianco
dittico, 2010
56 x 38 ciascuna tavola

venerdì 17 febbraio 2012

la stessa gomma di dio


Esiste una gomma, è la mia, che quando la poggio sul foglio tira giù tutti i miei errori, tutti gli sbagli, tutti, tutti. Dal più recente al più vecchio; il primo, quello che feci all’età di sei anni, in prima elementare, il primo ottobre del 1966. La maestra, era una suora assai simpatica, lo prese a male, per me era solo una stanghetta che non si reggeva dritta, e me la fece subito cancellare. Da allora ne ho cancellati di errori, milioni. Anche quelli che non si potevano cancellare ho cercato di coprire di nascondere di eludere. Una massiccia operazione di esclusione. La più grande operazione bellica in cui mi sono trovata coinvolta. Giocando mai in attacco ma, sempre e solo, in difesa. Crescendo, gli errori infatti si sono spostati, dal foglio al corpo, e da quello alle relazioni ai legami, e da quelli al mondo, ecco perché nonostante grande com’è sono riuscita a sporcarlo di mio. Non ho dato peso, così come mi fu insegnato il primo ottobre del 1966: tanto c’è la gomma.
Ma io da un po’, un annetto circa, quella vecchia gomma non ce l’ho più. Inavvertitamente l’ho cancellata, forse. Da allora sono in affanno, letteralmente e fisicamente. Gli errori mi stanno tornando indietro. Lo strumento con cui ho creduto di aggiustare tutto mi sta recapitando tutto il triste approccio quotidiano. Non oso più impugnarla nemmeno perché chissà cosa mi mostra di tre anni venti giorni e tre ore fa: certo una disattenzione che pagò qualcun altro al posto mio. Questa gomma mi terrorizza adesso. Il problema è che non posso nemmeno buttarla dalla finestra, o nello scarico del gabinetto, ci ho provato, torna indietro arricchita di quel gesto di rifiuto, quel gesto maldestro che esce a fiotti sporcandomi le mani con un inchiostro che il sapone fa fatica a togliere. E’ una gomma maledetta, come maledetta è la mia vita. Io mi vivo così adesso. Soffocata da una pena così grande che non riesco a nominarla più. Troppo dolore, troppo ho visto. Troppo troppo troppo. Fuori casa, e dentro, e in me. E la bellezza dov’è. Anche il cielo è grigio stamattina. Penso ora alla felicità che ho provato l’ultima volta: il mio corpo sul tapis roulant la radio che diceva cose intelligenti e le immagini che mi scorrevano dentro cadendo dall’alto. I bigliettini che ho appuntato, li ho presi direttamente dalle mani di dio. Lui non cancella mai niente, per questo è felice, per questo il mondo è andato avanti. Gli errori siamo noi e ci ha lasciato. Ci ha fatto scoprire la gomma per farci disperare. Provare com’è la perfezione e non raggiungerla mai. O solo qualche volta e quella volta chiamarla felicità. E se fosse questo l’errore? Se invece la felicità fosse starsene su questa zolla sporca e sbagliata a vivere pienamente, con un bel respiro, questa pioggia grigia che mi unisce alla nuvola alla terra agli altri, tutti, e pure a Napoleone Bonaparte. Che l’acqua, quella, è da sempre la stessa acqua.


26 novembre 2011




geografia e storia, 2005
è in vendita
103 x 73

mercoledì 15 febbraio 2012

preghiera

mio dio dammi la capacità di credere che i miei limiti siano semplicemente il punto di inizio del mio cammino terrestre;
dammi l'umiltà di chiedere aiuto a chi mi mostra la sollecitudine l'affetto la tenerezza la bontà nello sguardo che tutto rende lieve; aiuto a chi ha la capacità di guardare le cose da un pò più di distanza di come vedo io;
dammi l'onestà la limpidezza, il coraggio di rispettare le scelte degli altri anche quando danneggiano le mie, perchè certo non con l'inganno cambiamo verso il bene il corso della Storia;
e infine dammi la forza della mia debolezza.
E dopo che mi ha fatto nascere a me stessa, mio dio,
aiutami a crescere.
Come fai crescere i fiori nei campi più irraggiungibili, più remoti, più inviolati.
e così sia



lunedì 13 febbraio 2012

Ho il cuore a pezzi

Vorrei riuscire a raccogliere tutti pezzi
ma già il vento ha cominciato a portali via:
a seminarli in un campo lontano.
Vorrei riuscire,
almeno
a mettere insieme
quelli che stanno sul tavolo
per terra
quelli che
gentilmente, mi hai raccolto tu da terra
ieri.
Ma sono troppo piccoli
e sono tantissimi
e poi io manco di pazienza
e ora, senza il mio cuore,
manco di amore:
non deve stare però lì l’amore
o non solo.
Perché è l’amore mi spinge
a farmi scudo con me stessa
con il mio corpo
di un dolore che,
altrimenti,
distruggerebbe tutto e tutti
e invece
una protezione,
tutta quella che riesco a esercitare e anche quella che non riesco,
con la mia anima chiamata pienamente a raccolta
perché il dolore non annienti
ma mi mostri me.
No, certo non più intatta,
ma capace di stare davanti a questo tavolo di briciole
senza alzarmi
senza sbuffare
senza pensare che la soluzione sia andarmene
e lasciare tutto lì.
Non sarà più lo stesso cuore di prima,
- un pezzo lo troverò fra qualche anno come petalo nella corolla di un fiore
un altro su un davanzale di una città lontana
un altro nella tasca del cappotto di mia figlia
un altro lo cercherò per sempre senza esito, lo so
un altro mi arriverà per posta
e saprò che ci sta dall’odore che porterà con sé -
perché quando li troverò non andranno più al posto loro.
E poi arriveranno pezzi di cuore di altri
e saranno così piccoli che non potrò più riconoscerli
e comincerò a mettere insieme il mio e il tuo e il suo
e quello di una amica di te
e questo puzzle non finirà più.
Ma ogni pezzo, ogni volta, mi porterà vicina a una verità
da cui in questi anni sono stata lontana.
Così, rotto,
funziona meglio di prima.

13 febbraio 2012





venerdì 10 febbraio 2012




































E’ buio quaggiù, accidenti. Cerco in tasca un pacchetto di fiammiferi, ma io non fumo: come potrei mai averceli? Una pila allora. Ma se mi dimentico pure dove metto quella che tengo a casa per quando se ne va la luce, beh, potrei averla messa nella tasca del mio vestito, sono da sempre sovrappensiero. No, niente. Niente luce oggi. Buio pesto. Non riesco nemmeno a leggere il biglietto che ho trovato mentre cercavo i fiammiferi, la pila. Chissà che c’è scritto. Forse, a Pino. Mio fratello. Che questo quadro l’ho fatto proprio nelle settimane successive al sua morte, uno strappo violento irredimibile, il 28 marzo, due anni fa. Una disgrazia annunciata da così tanti anni che uno pensa che sta soltanto portando male a sé e agli altri. E invece. Invece dovremmo sempre dare ascolto a ciò che senza programmazione ci parla dalle profondità di noi stessi. Quelle sono parole che vengono su come bolle d’aria dall’unico luogo che l’aria ce la fornisce davvero: l’anima, quando siamo disposti ad ascoltarla. Ascoltarla, e però anche, dare a lei spazio. Attenzione, prendendo in seria considerazione, ponderando con la necessaria gravità, ma anche velocità e spontaneità e flessibilità, quella luce piena quel soffio vitale e leggerissimo che essa ci porta come un messaggio. Come ambasciatore di qualcosa di più grande: noi stessi. Io, per me. Io come suggeritrice di cose che mi riguardano e che solo io conosco, onestamente davvero sinceramente per come esse sono e sono state, e come andate.

Anche le immagini, provengono da laggiù,o da lassù. Anche loro ambasciano un messaggio. In questo perimetro oscuro, di notte senza più giorno perché ciò che ho perduto per sempre se n’è andato, io cerco Pino. Dove sei? E stranamente quella domanda si accende. Come ogni parola, come ogni volta che usciamo allo scoperto e ci prendiamo la voce per dire una frase veramente necessaria. E che appartiene senza ambiguità: proprio a me. E’ necessario domandare al buio alla notte alla morte, a Pino che non mi rispondere: dove sei?
Ho come la sensazione, me lo dice quel rigurgito d’aria e luce da laggiù, che sei dove sono io. Dove sono?
Nel buio. Ma non urlo, parlo.
Parlo a chi mi è caro a chi sono cara io. Questo basta a non farmi sentire sola. A sentire il buio come uno spazio abitato in tanti.