domenica 15 aprile 2012
cento di questi giorni
oggi sarebbe stato il compleanno di padre Giuliano; dell'uomo che ha cercato di proteggere la bellezza e di promuoverla e di realizzarla in tutta la sua vita. La sua intelligenza l'ha spesa e utilizzata interamente a queso scopo, lottando contro l'inedia l'ignoranza la superficialità dei suoi confratelli. Era un frate francescano. L'avevo conosciuto nella priuma metà degli anni '90. Sergio lavorava al Cim di Lecce con un padre Corrado, un confratello di Giuliano. Corrado ci portò a conoscere alcuni luoghi belli della sua vita e a condividere con noi alcuni pasti nel convento di Leverano dove all'epoca viveva. Forse, era Leverano. I conventi un pò si somigliano e per andare a trovare padre Giuliano negli anni successivi ne abbiamo visti alcuni. Quello di Leverano resta il più importante, perchè lì padre Giuliano aveva stretto amicizie che poi io condivisi, come quella con Pia, una donna generosa e sorridente che mi trattò da figlia, lei ne aveva una che viveva fuori. Padre Giuliano mi insegnò a cucinare le melanzane come se fossero bistecche e un sugo con i funghi e l'alloro. Era un cuoco eccellente, come eccellente ogni cosa che faceva. Perchè era innamorato della vita perchè la sapienza lo abitava anzi era lui ad abitare nella casa della sapienza; uno dei suoi inquilini più di riguardo. Solo perchè non ha mai abbandonato la presa con ciò che con la sua vita poteva fare sulla Terra per difenderne un frammento solamente. A quel frammento non ha mai rinunciato. Ha riparato vecchie radio e vecchie telvisioni e vecchi ferri da stiro e impianti elettrici e chissà cosa e quanto altro. Studiava, cercava pezzi nel ventre da rigattiere del suo laboratorio, e si applicava e ci riusciva sempre. Si prendeva il tempo non che ce lo avesse, nessuno ce l'ha; se lo prendeva. E mentre riparava ascoltava la musica classica, Beethoven gli piaceva moltissimo. E dopo, si prendeva il tempo, non ce lo aveva, come nessuno di noi, se lo prendeva, e leggeva Dante; mi ha regalato una edizione della Divina Commedia. Leggi Teresa, io non l'ho ancora letta. Non ho tempo, mi sono detta. E' un alibi. Io nella casa della sapienza mi ci sono affacciata una volta, dalla finestra. Poi qualcuno mi ha chiamato da basso e io sono andata via e da allora non sono più tornata. Sto sotto il portone adesso. Busso. Oggi è il compleanno di padre Giuliano e io voglio fargli gli auguri. Cento di questi giorni! Di bellezza incarnata nel fare. Ovunque essa riesca generarsi a prodursi ad affermarsi, lì, oggi ci sei anche tu, padre Giuliano. Ti porto il mazzo di tulipani: decine di corone pronte ad aprirsi sulla tua grande testa bianca; una corona di capelli, un leone pieno di libertà. L'apertura della tua mente è la finestra più importante che hai lasciato aperta andandotene. Da qui vedo che la bellezza non si difende perchè durerà per sempre, ma perchè deve durare oggi. La bellezza che ha a che fare con la vita; c'è un nodo fra le due verità che se sciogli se rompi, ti condanni a un esilio. Da te stesso. Puoi sempre stringerlo daccapo però, il nodo. Non importa se cominci dalla bellezza o dalla vita. E' la stessa strada presa in due sensi diversi. A metà, di quella, ci si ritroverà.
martedì 10 aprile 2012
Torno a scuola
A Lecce.
il 13 e 14, questo
in due aule della scuola elementare Cesare Battisti
lo spettacolo di teatro
Lezione di Classe
in aula, con gli attori_maestri Gigi Gherzi e Silvia Civilla, i miei segni.
Uno spettacolo che ha bisogno della memoria e del desiderio di guardare da altri punti di vista i nostri anni di scuola; i compagni, i maestri. Noi, lì, allora.
E' il teatro dello spettatore del regista_attore Gigi Gherzi.
Lo spettacolo è per 60 spettatori_alunni. Il 13 e 14 aprile, alle 21.
La prenotazione obbligatoria; la prevendita a Lecce, presso il Castello Carlo V, 0832 246517
il biglietto costa 10 euro.
una produzione TerramMare Teatro, Nardò
0833 571871 http://www.terrammareteatro.com/
il 13 e 14, questo
in due aule della scuola elementare Cesare Battisti
lo spettacolo di teatro
Lezione di Classe
in aula, con gli attori_maestri Gigi Gherzi e Silvia Civilla, i miei segni.
Uno spettacolo che ha bisogno della memoria e del desiderio di guardare da altri punti di vista i nostri anni di scuola; i compagni, i maestri. Noi, lì, allora.
E' il teatro dello spettatore del regista_attore Gigi Gherzi.
Lo spettacolo è per 60 spettatori_alunni. Il 13 e 14 aprile, alle 21.
La prenotazione obbligatoria; la prevendita a Lecce, presso il Castello Carlo V, 0832 246517
il biglietto costa 10 euro.
una produzione TerramMare Teatro, Nardò
0833 571871 http://www.terrammareteatro.com/
venerdì 6 aprile 2012
il nUovo di Vittoria
a Vittoria Facchini
La più bella lettera d’amore che mai sia stata scritta, sta, fatta tutta a pezzettini, sotto l’albero di melograno, entrando a destra nello spazio quadrato del mio giardino. Ieri ho distrutto, una ad una, le sue indimenticabili pagine. L’amico Ruggiero, il giorno prima mi aveva consigliato di spruzzare sopra la vernice trasparente, in modo da chiuderle in una pellicola protettiva che forse avrebbe fermato il processo di autodistruzione che su quelle pagine era già cominciato, il giorno stesso in cui Vittoria me le ha scritte, disegnandole, una per una. La mia lettera d’amore, la più bella mai scritta, forse proprio perché non potevo conservarla, è stata scritta su dodici uova. Tatuata sui gusci. Ogni uovo, una pagina con una rima e un disegno: per me.
Vittoria le aveva confezionate lasciandole dentro i loro due involucri, rigidi come gusci di tartarughe. E scritta, anche su quelli, una lettera divisa in due parti: parole di un fiume che si è fatto strada fin qui, rompendo gli argini. Che l’affetto quello fa, rompe e trascina via ogni barriera. Ogni ostacolo. Vittoria mi ha fatto dono della sua unica e sola capacità di intervenire su ogni dove su ogni più piccolo indizio di legame, per farlo fiorire daccapo. Anzi, per farlo nascere per la prima volta. La aspettavo nei giorni scorsi Vittoria, con il desiderio di chi aspetta qualcuno con cui condivide un grande segreto, l’accesso all’arte, la sua chiave fra le mani, l’aspettavo la domenica precedente all’inaugurazione della mia mostra, qui, nello studio dove ho trascorso gli ultimi undici anni, dodici, della mia difficile condizione personale. Me l’aveva solennemente promesso. Ma le solenni promesse di Vittoria, anche quello è un aspetto che condivido con lei, sono barchette in un mare assai volubile. Perché decine di variabili si muovono, sotto e sopra quello scenario. Variabili che noi stesse mettiamo in atto senza volerlo. Come tutti, forse. Tranne proprio qualcuno che invece tiene molto in considerazione la sua parola, prendendola così tanto sul serio da farsene ammazzare; o ammazzare a sua volta. Sono tutti dolorosi paradossi che producono giustizia solo volta per volta, esaminando la cosa, la circostanza in sé; ogni volta senza pre-giudizio. Io e Vittoria con le parole un po’ ci giochiamo, cercando forse dentro di loro, nella loro pancia nel loro segreto, un ingresso inedito, non quello normale. E allora l'agiamo, la pronunciamo mantenendo uno sguardo divergente su di essa: un alito di vento appena turbolento, l’apparizione di una grande nave lungo la rotta della nostra navigazione, o semplicemente il colore, indecente per la sua bellezza, di una nuvola, già ci porta in un’altra direzione. Perchè noi siamo radar di segni tanto elementari che gli altri li scambiano per alito di vento, per bastimento, per nuvola, e invece. E invece Vittoria non venne.
Un pasticcio linguistico un inconveniente appena trascurato di un appuntamento buttato lì, all’improvviso la incastrò. E io rimasi senza poter issare quella bandiera sulla mia arca. Altre cose poi accaddero. Perché il tempo mi si mosse fra le mani per issare un’altra bandiera, certo era completamente diversa, su questo momento della vita: il mio studio, la mia arca fermata lungo la rotta in tempesta e diventata porto. Luogo di incontri di scambi di traduzioni. Di crescita. Perché da se stessi si impara sempre; figurati dagli altri. La mostra l’ho tenuta aperta anche la settimana dopo, scrissi una mail, Vittoria mi rispose. Era in partenza per Bologna ma sarebbe tornata in tempo per quel fine settimana. Le scrissi che l’attendevo con le uova in petto. Una bellissima espressione che mi ha insegnato Vito Clinca, una persona importante nella mia storia adulta. A Vittoria piacque quell’espressione: l’attesa come momento colmo di immensa emozione e anche concentrazione, delicatezza. Un’assenza che chi attende riempie col suo desiderio dell’altro. Vittoria questa volta la sua l’ha mantenuta. E’ arrivata domenica pomeriggio recando due involucri di carta stracolmi di cuori. Li ho aperti due giorni dopo: si è spalancata davanti a me una bellezza travolgente. Sopra le custodie di plastica due lettere; due custodie di calligrafia a chiudere in due confezioni , sei pagine uovo per parte: dodici pensieri dodici immagini che mi hanno abbracciato accarezzato innamorato tenuto forte con una presa da carro attrezzi, coccolato, incantato portato: dentro di me. Su un tappeto volante di meravigliosi disegni, matita e pastelli, e ogni disegno-uovo, aveva la sua corrispettiva rima-uovo. Una frase per me. Una poesia di nome Teresa: dodici strofe, dodici indimenticabili illustrazioni.
La mia lettera d’amore ha cominciato a puzzare qualche giorno dopo. Nell’interno delle uova si era avviato il suo processo di decomposizione. Erano nella bellezza diventate inavvicinabili, anche per me. Le ho fotografate, ma non ero contenta. Meritavano di essere conservate nel modo più giusto; nella memoria. La mia lettera, la più dirompente lettera d’amore mai ricevuta, dovevo conservarla per sempre valorizzando proprio la sua immensa fragilità. Ieri, dopo mezzogiorno sono scesa in giardino e mi sono fatta strada in basso con l’aiuto di una paletta verso le radici dell’albero di melograno, ho rotto quei gusci li ho separati dalla parte degradata, la mamma di Vittoria li aveva bolliti, fatti sodi, e li ho sistemati in quel nido di terra. Prima però me le sono guardate le mie pagine, una ad una, di n-uovo, per l’ennesima volta in questi giorni in cui non sono riuscita a staccarmi dalla loro potenza. Le loro parole me lo sono fatte scendere nel cuore come si prende a grandi sorsate la medicina che ti salverà la vita.
Poi ho coperto tutto con foglie e terra. Ho innaffiato. Me stessa. Con l’amore che da un altro mi viene. Che l’amore quello, il suo dono, lo riceviamo solo dopo che noi tiriamo fuori quello che abbiamo per noi stessi. Un amore tormentato il mio per me, ma è pur sempre amore. Non sono facili gli amori mai. Non fanno eccezioni quelli che dobbiamo nutrire per noi stessi. Cara Vittoria, la tua lettera vivrà per sempre. Si mischierà in questi giorni alla terra e il melograno se ne nutrirà. Quando raccoglierò i frutti, in autunno, ci troverò, scritte, su quei chicchi rossi, il tuo grande amore. La tua potenza visionaria il tuo passionale coraggio e la dolorosa irruenza che ci è d’inciampo. La fame che non si placa se non nel gesto: nel momento solenne in cui facciamo uscire un pulcino da un uovo che nessun altro vede oppure un disegno, da un melograno.
martedì 5 aprile 2012, Lecce
caffè in giardino, 1999
La più bella lettera d’amore che mai sia stata scritta, sta, fatta tutta a pezzettini, sotto l’albero di melograno, entrando a destra nello spazio quadrato del mio giardino. Ieri ho distrutto, una ad una, le sue indimenticabili pagine. L’amico Ruggiero, il giorno prima mi aveva consigliato di spruzzare sopra la vernice trasparente, in modo da chiuderle in una pellicola protettiva che forse avrebbe fermato il processo di autodistruzione che su quelle pagine era già cominciato, il giorno stesso in cui Vittoria me le ha scritte, disegnandole, una per una. La mia lettera d’amore, la più bella mai scritta, forse proprio perché non potevo conservarla, è stata scritta su dodici uova. Tatuata sui gusci. Ogni uovo, una pagina con una rima e un disegno: per me.
Vittoria le aveva confezionate lasciandole dentro i loro due involucri, rigidi come gusci di tartarughe. E scritta, anche su quelli, una lettera divisa in due parti: parole di un fiume che si è fatto strada fin qui, rompendo gli argini. Che l’affetto quello fa, rompe e trascina via ogni barriera. Ogni ostacolo. Vittoria mi ha fatto dono della sua unica e sola capacità di intervenire su ogni dove su ogni più piccolo indizio di legame, per farlo fiorire daccapo. Anzi, per farlo nascere per la prima volta. La aspettavo nei giorni scorsi Vittoria, con il desiderio di chi aspetta qualcuno con cui condivide un grande segreto, l’accesso all’arte, la sua chiave fra le mani, l’aspettavo la domenica precedente all’inaugurazione della mia mostra, qui, nello studio dove ho trascorso gli ultimi undici anni, dodici, della mia difficile condizione personale. Me l’aveva solennemente promesso. Ma le solenni promesse di Vittoria, anche quello è un aspetto che condivido con lei, sono barchette in un mare assai volubile. Perché decine di variabili si muovono, sotto e sopra quello scenario. Variabili che noi stesse mettiamo in atto senza volerlo. Come tutti, forse. Tranne proprio qualcuno che invece tiene molto in considerazione la sua parola, prendendola così tanto sul serio da farsene ammazzare; o ammazzare a sua volta. Sono tutti dolorosi paradossi che producono giustizia solo volta per volta, esaminando la cosa, la circostanza in sé; ogni volta senza pre-giudizio. Io e Vittoria con le parole un po’ ci giochiamo, cercando forse dentro di loro, nella loro pancia nel loro segreto, un ingresso inedito, non quello normale. E allora l'agiamo, la pronunciamo mantenendo uno sguardo divergente su di essa: un alito di vento appena turbolento, l’apparizione di una grande nave lungo la rotta della nostra navigazione, o semplicemente il colore, indecente per la sua bellezza, di una nuvola, già ci porta in un’altra direzione. Perchè noi siamo radar di segni tanto elementari che gli altri li scambiano per alito di vento, per bastimento, per nuvola, e invece. E invece Vittoria non venne.
Un pasticcio linguistico un inconveniente appena trascurato di un appuntamento buttato lì, all’improvviso la incastrò. E io rimasi senza poter issare quella bandiera sulla mia arca. Altre cose poi accaddero. Perché il tempo mi si mosse fra le mani per issare un’altra bandiera, certo era completamente diversa, su questo momento della vita: il mio studio, la mia arca fermata lungo la rotta in tempesta e diventata porto. Luogo di incontri di scambi di traduzioni. Di crescita. Perché da se stessi si impara sempre; figurati dagli altri. La mostra l’ho tenuta aperta anche la settimana dopo, scrissi una mail, Vittoria mi rispose. Era in partenza per Bologna ma sarebbe tornata in tempo per quel fine settimana. Le scrissi che l’attendevo con le uova in petto. Una bellissima espressione che mi ha insegnato Vito Clinca, una persona importante nella mia storia adulta. A Vittoria piacque quell’espressione: l’attesa come momento colmo di immensa emozione e anche concentrazione, delicatezza. Un’assenza che chi attende riempie col suo desiderio dell’altro. Vittoria questa volta la sua l’ha mantenuta. E’ arrivata domenica pomeriggio recando due involucri di carta stracolmi di cuori. Li ho aperti due giorni dopo: si è spalancata davanti a me una bellezza travolgente. Sopra le custodie di plastica due lettere; due custodie di calligrafia a chiudere in due confezioni , sei pagine uovo per parte: dodici pensieri dodici immagini che mi hanno abbracciato accarezzato innamorato tenuto forte con una presa da carro attrezzi, coccolato, incantato portato: dentro di me. Su un tappeto volante di meravigliosi disegni, matita e pastelli, e ogni disegno-uovo, aveva la sua corrispettiva rima-uovo. Una frase per me. Una poesia di nome Teresa: dodici strofe, dodici indimenticabili illustrazioni.
La mia lettera d’amore ha cominciato a puzzare qualche giorno dopo. Nell’interno delle uova si era avviato il suo processo di decomposizione. Erano nella bellezza diventate inavvicinabili, anche per me. Le ho fotografate, ma non ero contenta. Meritavano di essere conservate nel modo più giusto; nella memoria. La mia lettera, la più dirompente lettera d’amore mai ricevuta, dovevo conservarla per sempre valorizzando proprio la sua immensa fragilità. Ieri, dopo mezzogiorno sono scesa in giardino e mi sono fatta strada in basso con l’aiuto di una paletta verso le radici dell’albero di melograno, ho rotto quei gusci li ho separati dalla parte degradata, la mamma di Vittoria li aveva bolliti, fatti sodi, e li ho sistemati in quel nido di terra. Prima però me le sono guardate le mie pagine, una ad una, di n-uovo, per l’ennesima volta in questi giorni in cui non sono riuscita a staccarmi dalla loro potenza. Le loro parole me lo sono fatte scendere nel cuore come si prende a grandi sorsate la medicina che ti salverà la vita.
Poi ho coperto tutto con foglie e terra. Ho innaffiato. Me stessa. Con l’amore che da un altro mi viene. Che l’amore quello, il suo dono, lo riceviamo solo dopo che noi tiriamo fuori quello che abbiamo per noi stessi. Un amore tormentato il mio per me, ma è pur sempre amore. Non sono facili gli amori mai. Non fanno eccezioni quelli che dobbiamo nutrire per noi stessi. Cara Vittoria, la tua lettera vivrà per sempre. Si mischierà in questi giorni alla terra e il melograno se ne nutrirà. Quando raccoglierò i frutti, in autunno, ci troverò, scritte, su quei chicchi rossi, il tuo grande amore. La tua potenza visionaria il tuo passionale coraggio e la dolorosa irruenza che ci è d’inciampo. La fame che non si placa se non nel gesto: nel momento solenne in cui facciamo uscire un pulcino da un uovo che nessun altro vede oppure un disegno, da un melograno.
martedì 5 aprile 2012, Lecce
caffè in giardino, 1999
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_storie sotto il diluvio_,
(Vittoria Facchini),
sfridi
mercoledì 4 aprile 2012
a Bari, nella pancia della balena
Da qualche giorno invece, a Bari, in Via Datto 14, a Poggiofranco, vicino a quella chiesa in cemento armato, bruttissima, nel negozio di cornici di Ruggiero Gregorio, che sta sotto il balcone della signora Dentico, una amabile signora avanti negli anni che fa da mamma a un intero quartiere, e lo fa scendendo un paniere di vimini dal suo balcone dove dentro sistema i più buoni panini della città, per non parlare delle sue focacce, da qualche giorno ci sono anch'io nel negozio di cornici di Ruggiero dove ci lavora pure Enzo, ci sono dico due quadri miei. Stanno lì perchè Ruggiero vuole che un segmento del mio lavoro stia a Bari. E pure io lo voglio. E ci stia stabilmente. Se avete voglia tempo curiosità, e piacere a fare due chiacchiere con una delle persone per me più capaci di tradurre l'arte nella vita, andate in Via Datto sotto il balcone della signora Dentico. Dentro la pancia della balena. Che il negozio di Ruggiero quello è. Una balena che in altissimo e profondisimo mare, si è mangiata tutto quello che galleggia. Lei, sapete, la balena, non mangia i pesci. Mangia il plancton. Lei diventa grande nutrendosi dell'invisibile: l'animale più grande del pianeta.
Vi allego il numero di telefono del negozio e il cellulare di Ruggiero.
teresa ciulli
ruggiero gregorio: negozio, 080 5017977; cellulare, 3294141224
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