Non so chiamarti. I titoli mi vengono sempre alla fine delle cose dei processi delle storie che racconto, per immagini o per testo. Che racconto ai bambini durante un processo di educazione e autoeducazione alla bellezza e allo stupore che dura anche un intero anno scolastico. E così non so dare il titolo a questo che oggi, stamane, è solo un bisogno. Rendere pubbliche le mie tracce di questi anni. Il sito che avevo messo su e pubblicato nel 2002, opere di carta, non è mai stato abitato. Non conoscevo il linguaggio che mi consentiva di entrarci quando potevo volevo sapevo, necessitavo. Così quella casa, nata già con le tubature sgocciolanti, ha continuato a perdere acqua senza che io riuscissi a fare nulla per lei. Troppo complicato. E’ rimasta così in tutti questi anni. Una casa con le porte e le finestre aperte ma in realtà disabitata. Me ne rammarico fino a un certo punto. Forse cercavo quello che alla fine solo in questi mesi ho trovato. Uno spazio in cui abitare in questa dimensione immateriale e affascinante del web. Ma anche complicata pericolosa superficiale. Una superficie che porta all’estremo i nostri tic le nostre nevrosi le parti infantili di noi ma anche quelle serie. E’ serio infatti per me adesso il bisogno di condividere il patrimonio di pensieri e di passi compiuti in questi anni, quasi dieci ormai. Mi sembra di abitare in un luogo deserto. Quello che lancio di qua sono aerei di carta. Forse così posso chiamare il mio blog. E disegnare, o provare a farlo, traiettorie in cielo che vanno verso Nord, l’arte. Verso Sud, la scrittura. Verso Est, la famiglia e gli affetti e verso Ovest, i conseguimenti, gli obiettivi, le storie e le scoperte del mio fare e del nostro: perchè sono diversi anni ormai che immagino storie che riguardano e che si fanno, e che realizzo insieme ad altri con cui condivido una passione, due: l’amore per la bellezza la passione per la letteratura.
Al centro di questa rosa dei venti, di questo aeroporto virtuale, ci sono io e questo gesto nudo semplice vitale. Spostare di pochi centimetri e staccare da me separandomene, ciò che mi è accaduto di fare di pensare di vivere.Saranno pure tre centimetri più in là ma la tua mano che raccoglie quell’aereo caduto può decidersi di lanciarlo ancora una volta. Ne perderò allora le tracce fisiche ma non quelle per cui quell’aereo ho deciso di lanciarlo da qui. Per affidargli altri padri madri sorelle amici. Io da sola non posso dare a ciò che faccio la ragione per cui lo faccio. Sospendere incantare sciogliere il tempo e trasferirlo altrove. Su un foglio di carta tenuto forte con le loro mascelle da queste formiche che sono le parole; da questi segni di matita che sono l’eco delle mie scarpe.

venerdì 27 novembre 2009

martedì 24 novembre 2009

Lista di pensieri per Giancarlo Siani

Sei nato un anno prima di me.
Non hai visto la caduta del muro di Berlino.
Un attore, Libero De Rienzo, ha guidato la tua macchina, ventitre anni dopo la tua morte.
Perché c’è qualcuno che guarda gli eroi?
Ma poi tu non eri un eroe: solo un giornalista-giornalista.
Nel film parli come se fossi un poco buffo, un poco cartone animato: hai una voce strana; chissà come era la tua voce; magari ci sta una registrazione sul sito che i tuoi familiari ti hanno dedicato.
Nella foto finale, quella che chiude il film, una tua immagine: la mano destra copre parte del viso, la guancia è coperta da una crema bianca su cui sta disegnato il simbolo della pace: non lo vedevo dall’anno scorso; da quando vidi il film che ti ha dedicato Marco Risi da Sergio. Un film che abbiamo visto perché per caso intercettammo una intervista che Serena Dandini fece a Risi sul suo divano rosso, un fiammifero di pensieri che si accende di notte. E Risi fu così intimo partecipe colto, con una timidezza piena di pudore nonostante il mezzo che ha veicolato le sue parole, la tivù.
Ieri invece, per il cineforum organizzato da Libera, ci ho portato Amalia, mia figlia, quattordici anni, prima liceo, con la speranza che possa imparare. Imparare? Che sciocchezza. Quello per lei è stato un film, come ne ha visti tanti, uno spettacolo. E’ entrata con i Ritz e con la Coca Cola e io mi vergognavo.
Scusami Giancarlo, non avrei dovuto portarla senza prima averla fatta cenare. Ma noi vogliamo ottimizzare tutto, fare tutto. Come se dalla quantità nascesse la qualità e qui, qui, ci sbagliamo.
E poi, e poi, non da te, che sei stato diciamolo pure usato da quelli che il loro lavoro non lo hanno saputo e voluto fare: lo Stato, i magistrati, i poliziotti, i giornalisti impiegati e le persone perbene di Torre Annunziata, quelle dieci o cento, non da te capro espiatorio insieme ad altre centinaia di persone che mia figlia deve imparare la legalità, o meglio, lo stare al mondo praticando la passione la cura la giustizia per e nel proprio lavoro, ma da me, da suo padre; e poi in una scala più piccola ma ugualmente importante, dagli adulti, tutti, che la circondano, pure da te che leggi questa lista; noi adulti che ogni giorno nel pulviscolo di pratiche e di scelte quotidiane, decine, una tessitura minuta di comportamenti, costruiamo siamo edifichiamo la Società e soprattutto lo Stato. Che quello è come la tela di Penelope. Ognuno ne è responsabile e ognuno lo tesse, e rattoppa, ogni giorno. E se c’è qualcuno come Giancarlo morto a 26 anni perché ucciso dalla mafia vuol dire che tutti gli altri intorno a lui non si aspettano niente, desiderano niente, cercano niente. Io avevo 24 anni quando nel 1985 Giancarlo Siani fu ucciso a Napoli sotto casa sua, prima della doccia e della pizza, per gli articoli che aveva scritto da giornalista abusivo, senza contratto, da quella stanza di Torre Annunziata che la sua sola presenza trasformò in Redazione. Avevo 24 anni e non ne seppi niente allora, studiavo ma non leggevo i giornali: una vecchia, terribile malattia di cui ancora soffro. Uno di quei non gesti quotidiani che fanno la differenza che rappresentano o meno per Amalia un modello possibile di cittadinanza, di appartenenza al mondo.
Penelope aspetta Ulisse e io chi aspetto; anzi: che aspetto ancora per mettermi al telaio?

Teresa Ciulli

p.s. ricordati di regalare ad Amalia a Natale il disco di Vasco Rossi. C’è una canzone: l’ultima sentita da Giancarlo.

http://www.libera.it

http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1780

Il 17 novembre il Senato ha votato un emendamento alla legge finanziaria: la vendita dei beni confiscati alla mafia. Sono 3213, cita a memoria Paola una giovane donna dalla faccia intelligente, quelli che lo Stato ha messo a disposizione della società tutta che rischiano, se l'emendamento dovesse passare anche alla Camera, oggi si riunisce la commissione, di essere messi all'asta e ricomprati da chi in questo momento dispone di liquidità. Chi? Chi se non gli imprenditori del mercato della tossicodipendenza del gioco d'azzardo del mercato nero dello smaltimento dei rifiuti. Chi, dunque? Lo Stato, il ministro Tremonti, dopo aver concesso il condono al rientro dei capitali oscurati all'estero, compie il gesto successo: mettere all'asta i beni confiscati alla mafia. Lo Stato italiano drena soldi, li raccoglie, da chi ha fatto dell'illegalità il suo mestiere. I soldi con cui saranno pagati gli stipendi dei dipendenti pubblici,la pensione dei miei genitori, le spese delle strutture pubbliche, la benzina nella macchina della Polizia, le flebo negli ospedali, saranno pagati con soldi prodotti fuori dalle regole di convivenza: soldi pieni di sopraffazione, soldi che dichiarano e affermano la legge del forte, di chi impugna l'arma, su quella del debole, di chi impugna la ragione, il desiderio di giustizia..
Libera raccoglie sul suo sito le firme di quanti di noi stamattina si svegliano a una tragica verità: questo non è il mio paese da tanti anni, da quando non mi riconosco più nella sua politica privatistica che protegge l'interesse di una piccola classe di individui; ma oggi, stamattina, non è più nemmeno un paese. Nessun valore, nessuno, tiene insieme 60 milioni di persone. Ieri sera in una riunione del coordinamento provinciale di Libera ho sentito nell'aria qualcosa che ricorda la politica. Nelle forme imperfette in cui può farla ciascuno di noi la ricordava. Ieri c'erano sedute intorno a un tavolo di una sala di parrocchia, grande, disadorna, non dieci persone, dodici, ma tanti. Poteva essere il tavolo di una seduta spiritica: giustizia quando ti manifesti? Nessuno ha risposto, nemmeno il crocifisso, un metro di statura, che sovrastava il tavolo. Tutto tace. Io no.
Teresa Ciulli

martedì 27 ottobre 2009




con un filo di voce


Ieri sera una agenzia a televideo: don Ciotti, nel raduno di Libera dedicato all’antimafia dice, hanno avvelenato i pozzi della politica. Stamattina a radio tre ascolto con turbamento con pena con imbarazzo le vicende private che coinvolgono il governatore Marrazzo, ex brillante giornalista di una notissima trasmissione dedicata al rispetto delle regole che tengono insieme la società civile. Hanno avvelenato i pozzi della politica, chi? I politici stessi. Marrazzo dice al magistrato che indaga su di lui, che lo hanno volutamente voluto incastrare con false prove. Hanno avvelenato i pozzi della politica. Fatto sta che il degrado morale è tale e tanto che pare che in questa estensione non si debba esercitare più il pensiero critico e il giudizio. Forse è questo l’obbiettivo, Creare una grande notte in cui tutto precipita. E io che sono già precipitati là dentro da quando ho smesso, ma ho mai cominciato?, l’agire politico, mi trovo adesso in un buco sovrafollatissimo. Mischiata agli altri, una caterva, così tanto che ora devo stare zitta, per pudore, per vergogna. Come fai ad accusare qualcuno se tu te ne stai, da mesi da anni zitta zitta nel tuo angolo insieme ai corruttori ai delinquenti agli inquinatori? Pure io ho avvelenato i pozzi della politica. Con il mio silenzio.

sabato 24 ottobre 2009

storia senza fine


Cara Anna alla fine ci hai lasciati.
Non ti sentirò parlare più, pensare, combattere. Hai preferito la vendetta alla tua stessa vita, l’offesa e la ferita di lui alla tua esistenza. Non hai accettato di aver perso, e vincere in quel modo certo è una sconfitta. Perché hai vinto sull’amore con il suo rifiuto. Ha vinto la tua mancanza di umiltà. Certo non saresti stata Anna Karenina e non avresti scritto la tua storia attraverso Tolstoj. Mi mancherai molto. Prima di andarti a mettere sotto la seconda carrozza di quel treno mi hai lanciato la tua borsetta rossa. Provo a riempirla delle storie dei pensieri che a te seguiranno. Te la consegnerò un giorno, quando nel cielo dei sentimenti e di ciò che ci sopravvive dopo la morte, ci incontreremo. Per prima cosa questo biglietto che ti appunto stamattina. Ho molte cose da fare adesso ma non volevo uscire senza averti prima salutato. E la scrittura anche a questo mi serve: a dire ciao. A trasformare la pena in un rigo orizzontale che se ne sta quieto sotto i miei occhi mentre tutto il resto, ed è infinito, oscilla e mi fa pena. Ma se fermo il mio sguardo qui ci sei tu Anna Karenina nella tua essenza finale. Una borsetta rossa che ha traversato un secolo, migliaia di case e afferrata presa, raccolta, da centinaia di persone. Fra queste, è certo una delle tue ultime prese più recenti, ieri sera, e con me chissà chi nel vasto mondo proprio ieri ha afferrato quella borsa, c’è la mia mano. Quella stessa che non esce stamattina senza averti sventolato un fazzoletto dove sopra sta disegnata la mappa della mia città. Stattene quieta un po’ con me adesso, cara Anna; riposati un po’, riprendi forze prima di cominciare a narrare daccapo a qualcun altro altrove, una storia senza fine.

sabato 10 ottobre 2009

a Emily non trema mai la mano mentre tende l'arco della penna


un poeta ti sovverte radicalmente l'ordine a cui sei abituato e nel momento in cui ti trafigge con la sua freccia il cuore, ti uccide alle credenze. E nasci daccapo. Tua madre sono poche righe di parole trovate per caso in un libro, bellissimo? no assai dippiù, pubblicato nel 1987 da Bompiani. Relativo a una mostra di immagini fotografiche, e brevi testi di grandi scrittori vissuti fra 800 e 900, cercati e raccolti da Leonardo Sciascia. Un libro comprato oltre vent'anni fa e mai davvero interrogato. Dicono però, ieri al telefono mi è stato ripetuto, c'è un tempo per ogni cosa. Deve essere giunto.



Estraneo alla bellezza- non può essere nessuno

perchè la bellezza è l'infinito-

e il potere di essere finiti cessò

prima che l'identità fosse concessa.


Emily Dickinson 1847

da Le stanze di alabastro


venerdì 9 ottobre 2009

per il mare, non per l'acquario

Scrivere sull’acqua.
Questo è quello che mi sembra fare nello spazio del computer.
Prima quando avevo la mia macchina da scrivere, quella di mio padre, prima ancora , la lettera 32 azzurra, quello che scrivevo mi pareva certo, inamovibile, reale. Sganciandomi dalle imperfezioni della scrittura era come se fossi giunta alla “ perfezione” del pensiero.
Da quando scrivo nel computer ho perso la fisicità della parola. E’ rimasta indietro, non riesco a trascinarla verso di me dove vivo io. Come è accaduto per esempio negli ultimi venti anni con i quadri. Attraverso quelli, che sono di carta e ossa, consisto. In tutto il resto no. Sono uno scolapasta da cui perdo ogni giorno sostanza presenza verità: realtà. Esisto in forma di byte dentro questo libro dove non leggo ma scrivo, scrivo, scrivo, qualcosa che invece di aiutarmi a ritrovarmi mi aiuta, giorno dopo giorno, a perdermi. Deve essere sbagliato il modo non l’esito. Perché l’esito alla fine sempre mi dà il sollievo di essermi raggiunta. Ma per poi separarmi immediatamente. A che serve se mi vado a trovare per poi abbandonarmi? Abbandono me stessa in un computer. Altro non so fare. Scrivo per i pesci.

giovedì 8 ottobre 2009


mercoledì 7 ottobre 2009

formica trattino stella

Le parole della preghiera dovrebbero spogliarsi ogni giorno e nude come alla loro alba arrivare a dio. Noi; io, questo sforzo non lo compio mai.
Dovrebbero arrivare incandescenti al loro destinatario, alla loro meta. Una parola denudata di tutto, e di noi stessi, e del modo in cui l'abbiamo usata negli anni nelle occasioni negli incontri, solo una parola così è già arrivata a dio. Ha già percorso lo spazio che ci separa da lì. Dal luogo dove origina la compassione la pietà la pena la tenerezza. La carità; valore supremo della fede che ho imparato da piccola condotta da mia madre. Essa poi diventa giustizia e coerenza: i massimi comportamenti religiosi che il mio amico Franco Maiorano, uno dei pochi preti che considero tali perchè esercitano il pensiero nella sua piena libertà e in questo modo fanno onore a dio perchè lo rendono vivo e presente nel mondo, mi sollecita a cogliere costantemente.
In mezzo a tanti cadaveri di pensieri formali, di parole disabitate perchè pronunciate come litanie come scongiuri ormai, e perciò più superstizione che la terribile verità della carità c'è qualcosa che cresce, ed è nuovo tanto quanto sa essere fedele allo spirito, all'essenza delle divine parole che un uomo chiamato Gesù cominciò a lasciare sulla terra a partire da una stalla e che, coerentemente alla sua nascita, ha lasciato in un percorso a fianco a gente umilissima, pescatori pastori analfabeti, vissuti duemila anni fa in Palestina. Poteva nascere nell'età dei condomini e degli ospedali e della pennicillina e invece è nato quando c'era il mulo, o i calzari, per spostarsi da un luogo all'altro. A quell'uomo, figlio di un dio che nelle civiltà ha preso nomi tanto diversi, a quell'uomo va la mia meraviglia. Porgi l'altra guancia. Una follia. Un modello di comportamento sempre nuovo, radicale rivoluzionario sovvertitore, quando qualcuno nella pratica della vita, lo innesta. Per arrivarci serve un coraggio che non ha uguali: non tenere conto della propria vita. C'è qualcosa infatti che la sopravanza: l'amore. Per la formica che pure uccido senza posa quando la vedo solcare le fughe della mia cucina e per la stella, attraversando tutto lo scibile, è l'infinito! che ci sta in mezzo. In quel trattino pure ci sono le persone amate. Esse da sole basterebbero, una sola, a giustificare lo sprezzo rispetto alla mia vita stessa, eppure non è facile per niente. Non fu facile nemmeno per quel dio, figlio di dio, che coerentemente al suo progetto morì su una croce appeso come un ladro fra i ladri. Cosa ci aveva rubato? L'idea che bastasse seguire le regole che gli uomini hanno dato ad altri, per stare in dio. Dio sta in una rivoluzione senza precedenti che tollera le istituzioni solo se esse non hanno a cuore i loro templi e i loro uffici pastorali ma le persone vive, con i loro desideri vivi i loro sogni vivi: di giustizia. Ci aveva rubato la certezza che bastasse seguire i comandamenti per essere giusti. L'amore dov'è il mio amore se appena posso uccido? La formica in cucina, la speranza con la mia paura di ogni cosa, la carità con la mia mano ferma, sovrappensiero.

martedì 6 ottobre 2009

una vigilia

il tempo è sempre una vigilia. Come oggi. Come domani. Come sempre.
Ma lo dimentichiamo sistematicamente credendo così di vivere meglio.
Non mi ricordo più chi mi ha insegnato questo trucco. E a sua volta quello da chi lo avesse appreso. Certo non sto bene dentro questo espediente, questa sorta di oblio cosciente con cui commentiamo ogni singolo gesto ed evento che a me, che a noi si interseca. Toglie coraggio questa prospettiva cieca e, con il coraggio, toglie visioni. Meglio sarebbe tenersi le vigilie tutti i giorni ogni giorno ogni ora. Non perchè a uno gli debba fondere il cervello con il pensiero di una catastrofe appena aperta la porta di casa ma perchè la funzione del nostro tragitto terrestre sta in una consapevolezza che non giunge mai a maturazione, lasciando il nostro frutto sull'albero per sempre acerbo. Se l'ape non viene a impollinare il fiore quello abortisce in un frutto che non svela mai più il suo sapore la sua polpa il suo colore la sua bellezza. Siamo al mondo perchè la mano, una mano qualunque, un giorno ci colga. E una bocca, una qualunque, sappia di noi qualcosa che noi di noi stessi non sapremo mai.

sabato 26 settembre 2009


volume d'acqua

Alvaro è diventato bravo questa estate. Ha imparato a scegliere fra i sassi sulla riva quelli proprio ultrapiatti. E poi li lancia facendoli rimbalzare sull’acqua due tre quattro, cinque volte! E vanno lontano e sembra che quelli si divertono più di lui a vivere quell’avventura: saltare, volare, guadagnare velocità e terreno….all’acqua. Cadere per loro è a quel punto come mangiarsi un gelato dopo un impegno portato a termine, una giusta conclusione. Bravo il sasso e bravo chi l’ha lanciato: e bravo pure il mare che si è prestato al gioco di un bambino. Ecco così vogliamo fare con il libro di Giono, l’uomo che piantava gli alberi. Vogliamo lanciarlo sulla superficie dei Presidi del libro e provare a farlo rimbalzare, una due tre quattro, cinque volte! Bravo lettore! Perché questo libro incarna più di tanti altri, magari più importanti, l’idea che abbiamo del futuro. Che si può solo vivere nel presente, il futuro. Seminandolo. Di comportamenti di modelli di persone, anche immaginarie perché no, che hanno visto in se stessi la persona migliore che oggi stesso e qui, potevano essere. Come il pastore di pecore Elzéard Bouffier. Che ogni giorno, tutti i giorni per vent’anni, portando al pascolo le pecore, camminando faceva cadere ghiande in piccoli buchi che si preoccupava di fare col suo bastone lungo i sentieri. Una foresta ne venne fuori che cambiò l’ecosistema e la storia di quel luogo. Un comportamento che vale la pena far rimbalzare sulla superficie di questa rete di lettori che ogni anno si dà appuntamento l’ultimo sabato del mese di settembre e convocata a ragionare sul tema del futuro; leggimi il futuro è il titolo che è stato fatto circolare in una riunione di luglio. E se vuoi che io ti legga il futuro, quello che vorrei non quello che si sta preparando, allora prendo in mano questo libro, gli hanno fatto l’anno scorso la copertina cartonata e dunque ben si presta a quello che sto per fare, è oltretutto ultrapiatto, è un racconto di trenta pagine, anche se, arricchito dalla materna matita di Simona Mulazzani ne vanta cinquant’uno, e lo lancio dritto. A voi che potreste dedicare un’ora della vostra festa, alla lettura magari in contemporanea con noi, a Lecce in Biblioteca, di questo libro di Giono, e così facendo lasciarlo rimbalzare a Noha a Bari a Trinitapoli. Dove cadrà a quel punto? In tutte quelle orecchie, due ciascuno, che per un giorno per un’ora si fanno zolla e ospitano il seme della parola. E’ un seme davvero questa volta, una ghianda come quella che seminava Elzéard o un seme di carrubo, una antica pianta del Salento la cui bellezza la cui voce la cui ombra per terra si sta perdendo, come quello che vorremmo regalare ai lettori che si uniranno a noi per leggere le trenta pagine di questa storia. E’ piccola ma è gigante il pensiero che l’ha prodotta. Come un seme è piccolo ma è gigante il progetto che contiene e le innumerevoli relazioni che esso può generare. Il futuro esiste solo se adesso io faccio qualcosa per rendere migliore il mondo che abito. Che sia raccogliere una borsa di rifiuti dalla riva del mare o portare da casa con me le borse di plastica in cui mettere la spesa. O leggere ad alta voce grazie a una staffetta di lettori un libro che il mercato dell’editoria destina ai ragazzi. Una fesseria una stupidaggine. Eppure di pratiche come queste, meno che elementari, io non ne vedo nessuna mai. In tanti anni che vado al mare e in altrettanti che faccio la spesa e in tre che celebro la festa dei lettori. Il mondo si cambia partendo da quello che posso fare io adesso. Anche lanciando un libro alla vigilia di una festa, sul mare delle relazioni che la rete dei presidi di per sé genera. Quanti salti farà? Mamma guardami grida Alvaro. Guardami! dico a te.

sabato 19 settembre 2009

una farfalla sull'Italia

se poggerai il tuo dito elettronico sull'Italia di Italo, sarai catapultato nel mio vecchio sito. Con Nichi siamo finalmente riusciti a trasformare in presentazione un catalogo di immagini sulla mia biblioteca scavata nel 1998. Dieci anni fa e passa. Una mostra che portai a una fiera del libro a Milano e che poi ho allestito anche a Campi Salentina, due anni dopo. Quei libri diventati materia prima di scultura, come un tozzo di pietra, stanno adesso addormentati, come la gran parte delle mie opere, in un armadio. Dormono, addirittura russano, certi che nessuno li sveglierà, men che meno io. E invece accade che uno si stanca di dirsi sempre le cose che non fa. Certo non è certo una nuova mostra; è tuttavia un dono. A me stessa in primo luogo. Non riesco a fare molte, moltissime cose; il mio tempo non si è frantumato dippiù: si perde come se ci fossero delle perdite dentro la conduttura del tempo che come uno scheletro fondamentale tiene in piedi la mia storia. Ce ne più di una. Ecco perchè non riesco a porre riparo più a niente. Dovrei chiamare un bravo idraulico ma temo che non potrebbe nulla. Il tempo infatti non se ne va via a perdere ma entra nelle falde di altri. Ho nutrito col mio tempo in questi due anni di silenzio e di assenza dal mio tavolo da disegno i miei figli, e quei due progetti che per un concorso di circostanze sono riuscita, grazie anche all'impegno preso con altri, a concludere o portare avanti. La vita si muove. Se penso di dover abitare oggi la forma di due anni fa rabbrividisco. Sono una lumaca nuda senza più casa. Quella vecchia, piccola è diventata, e se mi dispero a doverci entrare daccapo perdo solo altro tempo, e quello non va a finire nelle falde degli altri ma a nutrire una disperazione. Quella di essere cambiata per sempre. Addio vecchia crisalide.

Farfalla Teresa

mercoledì 26 agosto 2009


parole all'orecchio

Mi è successo daccapo. E’ la seconda volta. Sempre con lui. Mi blocco. Ho paura di andare avanti. Punto i piedi e mi fermo. La volta scorsa dovetti scrivere, mettermi al computer, come oggi, e scrivere. Analizzare le emozioni che si erano poste fra me e lui, come una diga, un ostacolo. E anche adesso, oggi pomeriggio. La prima volta fu con Guerra e Pace. Ricordo anche la pagina. Natasha, già innamorata del conte Andrej, partecipa con suo fratello a una battuta di caccia alla volpe. Ero convinta, certa che morisse. Quella battuta di caccia in quel punto del libro, con quei forti, ma pure contrastati sentimenti già seguiti nella loro evoluzione, mi pareva foriera di un avvenimento terribile. Ero terrorizzata. Avrei voluto entrare nel libro e dire, senti Natasha, stattene a casa oggi. Mi fu impossibile allora, e mi risulta altrettanto impossibile adesso. Lèvin che deve trascorrere la notte con suo fratello Sergej Ivanovich, perché non ce la fa ad attendere le quattordici ore che lo separano dalla richiesta di matrimonio che farà ai genitori di Kitty, la sua eletta. Anche questo un amore fortemente combattuto, dentro e fuori. Il libro, in questi passaggi epocali della storia, coincide così fortemente con la vita, quella mia, che ne provo una pena reale. Ma anche un amore che si rinnova. Non voglio sapere, non voglio. Eppure la vita di cui quasi tutto non so, va avanti, la mia come quella di Kitty e di Levin nel libro già scritto da Lev Tolstoj. A che serve fermare, e cosa e chi poi. Sto in alto, sul crinale del libro, in alta quota, sto in alto sul crinale della mia esistenza. Ci sto ormai. Posso solo scendere o continuare a salire. O posso guardarmi intorno. Ci sono appuntamenti da onorare, amore da condividere, bambini da proteggere, urli da lanciare, bisogni da esprimere, e un libro della garzanti in edizione economica appoggiato da due mesi sul mio comodino, nella stanza da letto, sono alla fine del primo volume. Sta scritto Anna Karenina. E dentro c’è una fotografia di Tolstoj a cavallo scattata nella metà dell’800. Lui porta una berretto con la visiera. Ha una bella barba bianca che gli arriva al petto. Portamento fiero. E un sorriso mentre guarda verso di me. Ha scritto la prefazione Serena Vitale,di cui lessi anni fa l’indimenticabile Bottone di Puskin. E’ un concentrato di vita questo libro: ci sta sempre, spremuta nelle pagine anche la nostra, la mia. Faccio le orecchie ai miei libri, è l’ultimo gesto, prima di separarmi da loro. Come direbbe il lupo: per sentirti meglio.

venerdì 21 agosto 2009

la parola indifesa

C'è una dimensione enfatica, teatrale, della parola che non mi piace e che qui, nel blog, risulta particolarmente fastidiosa. Anzi pericolosa. In primo luogo per me stessa, perchè mi espone al sentimento della vergogna. Lo sento addosso. Devo stare attenta quando entro qua dentro a non farmi prendere la mano dall'estetismo della parola, e del gesto. Questo aspetto è così delicato e fondamentale: è la dimensione etica della parola, unico veicolo che abbiamo per conoscere noi stessi, e forse gli altri. Il rifiuto è il sentimento provato. E ora con cautela mi muovo in questo rettangolo bianco che il blog mi mette a disposizione, è una finestra in fondo, per guardare e farmi guardare. Meglio. Per leggere nello spazio bianco qualcosa che appare perchè lo sto cercando, e farmi leggere da chi pure sta cercando dall'altra parte del suo schermo. Questo spazio non può essere un diario privato, la vergogna provata nello scrivere di un fatto personale ancora me lo dimostra. Perchè nulla qui è privato. Qui tutto è pubblico; pensiero che si rappresenta, quando non si celebra. Questo spazio ha senso e conserva la sua verità, e utilità, solo nella sua piena accezione pubblica. Ricomincio da qui. Difendendomi da me stessa.

domenica 28 giugno 2009

mercoledì 24 giugno 2009

Atelier dell’errore come Infermeria della Bellezza

un progetto di Luca Santiago Mora
per la Neuropsichiatria Infantile,
Ausl di Reggio Emilia


Giovedì 25 giugno, ore 18.30
Teatrino” della
Biblioteca Provinciale Bernardini
(ex Convitto Palmieri)

Sul Bestiario
conversazione tra
Luca Santiago Mora, artista
Marco Petroni, critico d’arte
Genuario Belmonte, zoologo

introduce Maria Cucurachi, Germinazioni


L’associazione culturale Germinazioni – Presìdio del Libro di Lecce – apre giovedì 25 giugno alle 18,30 a Lecce un ciclo di appuntamenti e incontri sul tema dell’infanzia con la presentazione del progetto l’“Atelier dell’errore”, laboratorio espressivo nato nel reparto di Neuropsichiatria infantile della Ausl di Reggio Emilia e curato da Luca Santiago Mora.
Il “Teatrino” della Biblioteca Provinciale Bernardini accoglierà per l’occasione lo stesso Mora che presenterà il suo libro “Bestiaro dell’atelier dell’errore”, raccolta dei disegni che i bambini/pazienti hanno immaginato sul tema della bestia, inventandone di nuovi e fantastici: animali provenienti da mondi lontani, mai visti, mai ricordati prima.
Converseranno con lui sul tema del “Bestiario” e sulle sue molteplici significazioni Marco Petroni, critico d’arte e il professore Genuario Belmonte, zoologo dell’Università del Salento. Durante l’incontro, introdotto da Maria Cucurachi per Germinazioni, sarà proiettato il video “Il cammello purpureo di Correggio”, una raccolta di alcune 'lectio magistralis' in cui i bambini stessi descrivono le creature frutto della loro immaginazione e ne svelano i segreti, i nomi, le abitudini, ecc. Attraverso questa esperienza inoltre, si avvia un percorso di indagine alla ricerca del senso, certo mai assoluto, della parola “Bestiario”. Numerosi sono i suoi significati, le sue letture, le sue interpretazioni, i suoi esiti, le sue potenzialità. Altrettanto numerose le discipline che se ne sono occupate e se ne occupano nel tempo. Questo è solo il punto di partenza, ma sono ancora sconosciute le strade che si apriranno di qui in avanti.

L’iniziativa realizzata con la collaborazione dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Lecce, promossa dalla Regione Puglia - Assessorato al Mediterraneo in collaborazione con l’Associazione Presìdi del Libro prepara l’arrivo in città, nel prossimo inverno, degli animali fantastici dell’Atelier dell’Errore.
La mostra vedrà al suo interno laboratori didattici (realizzati con la collaborazione dello stesso Santiago Mora) per i bambini del nostro territorio che potranno così incontrare i bambini autori del bestiario, gli animali fantastici, la biblioteca, i volumi contenuti al suo interno e l’arte intesa come materia prima dell’espressività umana.
Germinazioni, associazione culturale nata in seno al centro Diurno di Lecce, apre così un ciclo di appuntamenti e di occasioni di approfondimento rivolti ai bambini del nostro territorio e a chi ha vicinanza specifica con la loro realtà: la scuola, il loro quotidiano, la famiglia. Il rapporto con l’infanzia, il disagio, la prevenzione e la riabilitazione diverranno temi di un confronto aperto all’arte e alla creatività, ma anche e soprattutto a nuove proposte da parte di tutti i cittadini.

Luca Santiago Mora è nato a Bergamo nel 1964; si occupa di arti visive, fotografia, video e ‘scultura sociale’. Dal 2003 cura, in collaborazione con “L’Indaco onlus”, un laboratorio di pittura (Atelier dell’Errore) per ragazzi dai 7 ai 12 anni all’interno del reparto di Neuropsichiatria Infantile della Ausl di Reggio Emilia. Nel laboratorio si disegnano solo animali, ne nasce così una zoologia sconosciuta, un bestiario fantastico che, negli ultimi due anni, è stato esposto all’ “ArtVerona 2007” (Verona, ottobre 2007) e a “Stupefatti di spazio” (Carpi, maggio 2008). Il progetto “Bestiario” è stato inoltre finalista del concorso “Ossigeno Italiano – l’inventiva in Italia attraverso 45+1 progetti”, indetto dalla rivista “Abitare” ed è contenuto in un prezioso volume pubblicato da Campanotto editore (2007).

giovedì 4 giugno 2009


Bari 6 e 7 giugno 2009


Amico caro le parole in questi giorni, giorni?, sono sassi giganteschi. Li prendo in mano, ma no, neanche ci provo, mi verrebbe l'ernia. E allora ci passo vicino e li guardo da una distanza. Una distanza che tu non hai con le tue in questi due mesi, neanche, di campagna elettorale. A Bari nella nostra città, cioè, la tua e la mia fino a venti anni fa, troppo per considerarla ancora mia eppure la considero. Eravamo all'Università quando ci siamo conosciuti e le chiacchierate nella tua vecchia macchina, era grande, una macchina dismessa di tuo padre forse, me le ricordo bene. Su tutto. Amori (al plurale), studio, professori, amici. Tu già, ed eri piccolo, avevi cominciato a creare un coro all'Università, non c'era niente allora nel 1984 a Bari. Poi è sbocciato tutto. Un patrimonio di saperi di culture di ricche biografie. Quelle che tu cerchi oggi di valorizzare con la tua discesa in campo nello spazio che ti è stato offerto da Sinistra e libertà, il partito nuovo fondato da Nichi. Nichi! altro capitolo di questi anni che però non apro no. Perchè quello che oggi penso di Nichi, poco e malnutrito, e chi li ha letti i giornali in questi anni, quello che io so è di centesima mano e dunque è meglio che sto zitta. E invece queste poche parole che ho la forza di usare stamattina le voglio concentrare su di te, Gioacchino. Non ho fatto le dieci telefonate che mi hai chiesto, a chi? ad amici di Bari che non sento mai? mi sentirei una che ha un atteggiamento strumentale con le persone e lo sarebbe, e non voglio. Forse giusto a Patrizia che almeno ho sentito un pò di volte ma agli altri no. Forse ora che ci penso a Ruggiero che ha il figlio musicista ed è il mio corniciaio. Mi accontento di lanciarti qui amico mio, come si lancia un messaggio in una bottiglia: in mezzo al mare. Sembra che sia tanto grande e poi invece qualcuno la trova...Magari lo dico anche alla mia amica Angela, lei è di Turi ma magari vota a Bari che ne so? E' che nonostante il peso delle parole qualcosa voglio fare. Scrivere che sei intelligente e tantissimo, cosa per la quale ti ho sempre ammirato; che sei acuto e arguto e che ami realizzare, tu lo hai fatto per te stesso. La tua storia è bella. Da solo e con grande spirito di applicazione e pazienza sei riuscito nei tuoi progetti di vita. Adesso insegni al Conservatorio a Bari. E credi che quanto la musica ha dato alla tua vita possa darlo in termini di cultura, che significa economia e io ci credo, alla nostra città. Sei disposto a impegnare il tuo tempo per questo e ti ammiro oggi per questa disponibilità. La politica è diventata una cosa brutta perchè tutti noi abbiamo avuto molto amor proprio e ci siamo tenuti fuori. Ed eccoci a vivere in un paese imbarbarito dal quale spesso vorrei fuggire. Colpa nostra, mia. E non si può dire invece più, tua.
auguri amico mio

gioacchino a parole sue


gioacchino a parole sue 2


lunedì 25 maggio 2009

domenica 24 maggio 2009

Lecce Cortili Aperti

nella lingua dell’upupa

Chissà che strano seme ha fatto nascere questa strana pianta, stamattina, all’improvviso. Una folata di sole l’ha piantata nell’immaginazione. E’ un seme delicato quello. La terra che lo nutre è il mio corpo stesso. Una vaso pieno di storie di persone di affetti di una parte dei quali sono stata derubata. E di quelli però, di alcune persone che vivono oggi nel teatro della mente, ancora mi nutro. Non le ho fatte andare via. Vivono insieme a chi con me, nel presente, sta arrabbiato affaccendato stanco timoroso o forte dentro la vita, conficcato in quella. Ma in me è solo quel gesto libero di piantare un seme che non esiste mettendo in bocca a un’upupa vista stamattina tornando a casa, travolto lo sguardo dal suo volo marrone e nero che disegna onde nel cielo, una frase che dovrei essere io a dire: confondere i canti. Invece io rubo all’upupa il suo. Per un po’ me ne voglio stare straniera a me stessa e incantarmi di un racconto in una lingua sconosciuta.
Teresa

Il seme della memoria

venerdì 22 maggio 2009

la memoria del seme

Questo seme ha una lunga storia. Fu raccolto da un grande bellissimo alto albero fronzuto dalle piccole numerose foglie verdi a zigzag ad Alcalà, in una antica masseria nell’agro di Misterbianco in provincia di Catania. Eravamo, molti anni fa, ospiti felici di quel meraviglioso angolo di Sicilia; dalla nostra finestra vedevamo oltre il tappeto degli alberi di agrumi a dismisura, l’Etna fumare: una apparizione, una divinità. Una montagna vivente.
Quell’albero invece, ci raccontò la proprietaria, veniva dall’Africa. L’aveva portato in tasca in forma di seme un suo parente, un nonno o uno zio, sopravvissuto alla terribile battaglia di El Alamein nel 1942. La stessa a cui aveva partecipato anche mio padre. L’albero che avevo, meraviglioso davanti a me, era l’albero della vita mia, pure. Anche mio padre sopravvisse, fu fatto prigioniero dagli inglesi a Tobruk e tradotto sulla Queen Mary, un celebre piroscafo, prima in Inghilterra a Glasgow, poi in America, in un lungo viaggio attraverso quegli stati che lo portò in Luisiana dove rimase prigioniero, rifiutandosi di raccogliere le patate, fino alla fine della guerra. Nel 1947 conobbe mia madre in treno da Castellana a Bari. Mio padre era in servizio nell’Aeronautica, arma che ha servito tutta la vita, e mia madre studiava musica in Conservatorio. Quell’albero, bellissimo e grande, conteneva anche me. Ho conservato i suoi semi tutti questi anni, almeno una dozzina, a forma di fagiolo lungo, sottile e arcuato. Non so se sono ancora buoni. Credo di sì. I semi sanno dormire a lungo, sanno aspettare tanto prima di annidarsi. Sotto il sole della Sicilia in una piana fertile di cenere. Il Salento è un bel posto, il sole è bello come quello della Sicilia dobbiamo a questo punto solo provare.
Dedico questa semina, questi uccelli che portano il seme, a Giancarlo Siani, un giovane giornalista campano ucciso dalla camorra quindici anni fa credo, il cui scontrino del film ho tenuto per un mese mezzo poggiato sul mio frigorifero e poi ho buttato stremata dalla fatica di non riuscire a tessere dentro di me una storia un momento una occasione in cui ricordarlo, anch’io. Dedico questo seme, e l’albero che verrà, all’Associazione culturale Germinazioni che vorrei tanto con la vendita di queste spillette, domenica per Cortili aperti, portare a far parte dell’associazione Libera, di don Luigi Ciotti. Credo che ognuno di noi possa debba e può provare a fare spazio dentro di sé a una urgenza: collegarsi con le vite di chi ha lottato per conservar la propria voce, poterla spendere a favore di valori fondamentali alla vita: giustizia uguaglianza verità; quella che si manifesta nella coerenza. A favore della dignità, del rispetto che dobbiamo dare a noi stessi e a gli altri esercitando, praticando una virtù di cui siamo sempre più poveri e orfani: l’educazione, il rispetto delle regole che ci tengono insieme nella pace. Un rispetto che dobbiamo anche se non soprattutto a questo pianeta con una immediatezza che non consente più rimandi, rinvii. Dedico questo seme, questo albero che verrà anche a Sandra Carucci che si è tanto spesa dietro le quinte di questa bellissima manifestazione che è Cortili aperti, un lavoro che nessuno vede ma senza il quale non ci sarebbe niente neppure questo seme, queste storie, questo progetto da trasferire. Da scambiare. Impariamo anche questo oggi: a vedere le cose che stanno dietro, a cercare di capire come accade, come è accaduto che noi siamo qui in questo momento. Una catena di debiti di casualità di occasioni. Perché? Lascio galleggiare questo punto interrogativo nello spazio del foglio che resta e mi attacco a quell’uncino come a un paracadute. Da qualche parte atterrerò. Forse nel palmo della mano di trenta persone e grazie a loro insieme al nostro gruppo di lettori, nella rete di Libera. Forse, fra cinquant’anni, nelle fronde di un albero bellissimo che crescerà in un giardino accanto a questo. E dirò a me stessa: dove l’ho già visto? E che sussulto quando tra le foglie ritroverò, appeso a un gambo, lo scontrino del cinema buttato solo qualche giorno fa.

venerdì 8 maggio 2009

Re Mida, quella a destra


ha fatto un'altra bravata. Ieri sera, al termine della riunione, ce l'ha mostrata. Il video che ha montato per la Fiera del libro di Torino. Gilda Melfi glielo aveva chiesto dopo aver visto le immagini nude e crude che aveva portato a Bari per Expolibro, un mese fa, meno. Si riferivano a un momento della nostra festa del lettore, quella che abbiamo organizzato insieme a Mauro Marino, Fondo Verri, il 27 ottobre del 2008. Il tema era Sleggere, sottotitolo: quando un libro non vuole farsi leggere. Intendevamo in quella occasione giocare contro la festa, prendere in giro quella che ai nostri occhi sta cominciando a diventare una istituzione e dunque a perdere il carattere ludico innovativo, creativo, che i primi anni ha rappresentato per noi lettori. Lasciateci stare volevamo dire. Lasciateci in silenzio. Quello che precede il pensiero la scrittura la lettura e l'incontro casuale. E che poi in quelle azioni, si approfondisce, diventa un abisso in cui pascersi, finalmente liberi dalla logica dei fini. Così è nato il filo conduttore di Sleggere. E diverse azioni interattive con il pubblico dei lettori abbiamo immaginato e realizzato: la manipolazione di un libro uscito male dalla tipografia, quello di poesie di Gioia Perrone, il ritorno dell'Ofisauro, ciao Gioia, poi la raccolta di dediche ai lettori, poi la mostra dei libri di Gioia fatti saltare in aria dalla manipolazione e dal gioco, poi il videocensimento delle letture interrotte. Vale a proposito perchè non ne fai un breve trailer da mettere sul blog di germinazioni? Per l'occasione era stata allestita una piccola stanza nell'ex Conservatorio di Sant'Anna a disposizione di chi intendeva lasciare la sua videotestimonianza di lettore fallito e duramente quanto inutilmente messo alla prova. Poteva indosare se intendeva, una corona a scelta fra tre, nobilmente appoggiate su cuscini di velluto e sottrasi se intendeva, allo sguardo frontale della telecamera, e dei posteri, coprendo parte del viso con una mascherina a scelta fra decine tutte diverse e frutto, sorprendente, emozionante, significativo, di un laboratorio condotto da Valentina mesi prima al Cim, nelle ore della riabilitazione. Una sedia confortevole, da regista ma bianca, stava in attesa davanti alla telecamera, fissa, poggiata su un cavalletto: un'imbuto dentro cui lanciare, senza far male a nessuno e nemeno a lui, il libro. Ebbene, udite udite, da qualche giorno quei venticinque trenta nuinuti di registrazione, sono un video. Con colonna sonora scelta delle immagini dei tempi delle sequenze. Mi è sembrato bellissimo. Una soprpresa e un regalo che ho ricevuto senza che me lo aspettassi. Male. No, bene! Perchè è bello non aspettarti niente, e poi trovarti davanti a un dono così. C'è dentro per me che conosco la sua storia e la nostra nel punto in cui convergono, un condensato di chi siamo. Come il latte in polvere. Solo se lo sciogli nell'acqua si fa. Anche il video solo se lo vedi, tu spettatore lettore, spettatore mamma, spettatore manager, spettatore spettatore, si scioglie: il suo racconto nel tuo. Perchè è il nostro amore per i racconti, per le storie, a farci muovere pazzamente spesso ormai, su queste scacchiere vecchie e nuovo che sono le narrazioni, quelle che troviamo nei libri e quelle che produciamo noi. Abbiamo fame di racconti. Una fame bulimica. Lo diceva molti, ormai troppi anni fa, Italo Calvino, quando concludendo l'introduzione alle città invisibili faceva dire a Kublai Kan, solo i tuoi racconti Marco mi aiutano a incantare la paura della morte. Forse stiamo alzando un muro così grande, e così rapidamente che la morte è invece già in questa sovrabbondanza sovrapproduzione di storie. Ma se è così ci conviene giocare il tutto per tutto e scalare il muro, non più girare a vuoto fra quei miliardi di corridoi. Re Mida, la nostra, la mia, cara e preziosa Valentina lo sa. Se tanta bellezza riesce a tirare fuori dal suo cervello dalle sue mani è perchè si ostina con una volontà che è fra le sue due qualità fondamentali a non perdersi d'animo nella ricerca della verità del senso. Quella ricerca costante, mettere significati, portarli restituirli ripararli, è la ricchezza della sua vita fra le nostre vite. Amica cara ti voglio bene e sono onorata di essere qui in questo viaggio sulla Terra insieme a te nella stessa astronave. E sì perchè sulla Terra noi ci arriviamo sempre da fuori. Gli extraterrestri siamo noi.
la fotografia risale a ottobre del 2007. la sensibilissima e amabile daniela zedda, una superfotografa di scrittori artisti musicisti, ci onorò a cagliari durante il forum del libro a cui eravamo stati invitati, di alcuni suoi scatti. certo che come exterrestri non siamo molto convincenti, quelle antenne verdi che non si vedono, quella gelatina che dovrebbe debordare dalle guancie e soprattutto gli altri tre occhi...

mercoledì 15 aprile 2009

dieci baci

saba' alkir, buon giorno in arabo. Scrivo da Marsa Alam, una giovane localita' turistica sul Mar Rosso. Batto i tasti di una tastiera che di per se' meriterebbe una fotografia, perche' ogni lettera ha il suo corrispettivo arabo, linee puntini onde e altri segni di difficile catalogazione; e mi meraviglio che batto il tasto ed esce proprio la a la e la i. Sono in un ufficio privato e ora squilla anche il telefono. Di sottofondo una melodia, una cantilena, una voce maschile che chissa' che dice. Siamo arrivati sabato notte. E' un deserto, mozzafiato, di mare con le montagne e il deserto di sabbia dietro di noi. Fra questi due deserti uno pullulante di vita, l'altro di storie, un villaggio aperto solo il 7 marzo di quest'anno della catena di alpitour. Mi sento un pesce fuor d'acqua eppure una profonda vasca d'acqua in cui conservarmi ce l'ho eccome: una stanza super accessoriata con comodissimi letti e aria condizionata, acqua potabile e succhi di frutta e ottimo the, tre pasti al giorno con la possibilita' di un quarto, una piscina inimmaginabile e molti giovani cordiali commercianti egiziani che hanno qui la loro galleria che, parlando un ottimo italiano, riescono a farti entrare nella scoperta del viaggio. Senza volerlo sono loro i veri tramiti fra me e questo viaggio dentro un acquario grande quanto il mare: basta prendere la maschera e fare dieci bracciate, dieci, e ti trovi al cospetto di pesci di una bellezza incredibile e di spaventosa diversita' come quella dei fondali, della barriera corallina. Un libro, portato dall'Italia, sui pesci sulle conchiglie, e' in questo momento la mia riva piu' stabile. Il regalo che stava custodito nell'uovo di Pasqua, e' la bellezza del pianeta. I coralli e i pesci grandi e bellissimi, sovrani ancora, non sappiamo per quanto, nel loro regno immenso. Ma la loro vita e' la nostra. Si' la loro quaggiu'. Se loro muiono perche' noi sfruttiamo senza restituire, noi pure. Gia' la storia di una rinomata localita' dell'Egitto, Charm en Sheik (?), testimonia questa rapina come molti e piu' familiari luoghi del nostro quotidiano. Dobbiamo farci sentinelle. Testimoniare questo legame indissolubile fra io e l'onda io e la zolla fra io e l'ape; io e il pesce balestra, il pesce farfalla e quello chirurgo, ogni battito. Che siamo a Castromediano o a Marsa Alam. Fra io e te che oggi che domani mi leggi. Perche' insieme possiamo di piu', e meglio. Ti saluto insieme alle rondini dalla pancia bianca che volano a perdifiato piu' rapide di frecce sul prato strappato al deserto, che cosa assurda per me, ma non per queste rondini e garzette e altri tantissimi uccelli che vedo a dieci passi da me. Trovano qui, nel prato, di che nutrirsi e loro, le rondini dalla pancia bianca non hanno motivo piu' di emigrare stagionalmente a Modica, in Sicilia, dove le vedemmo l'anno scorso proprio di Pasqua, in un altro viaggio di nella storia della nostra infanzia. Dieci bracciate e dieci passi e dieci parole, in arabo, spero di riportare indietro. Sembra un piccolo bagaglio e invece sono dieci passi in meno verso la fraternita' con la terra con i fondali con le vite conosciute qui.

lunedì 6 aprile 2009

Posta Ordinaria


segreteria.presidente@regione.puglia

Il Parco Regionale delle Gravine, in provincia di Taranto, rischia di scomparire a causa delle domande di esclusione che vi pervengono da imprese, famiglie di proprietari, comuni. Io come cittadina interessata al bene pubblico chiedo che questa riserva di bellezza e di diversità: faunistica floreale e etnologica, venga preservata e funzioni come modello a questa generazione e alla prossima di una forma di sviluppo e di turismo fondata sulla cultura. L'unica forma adesso, oggi, in grado di sopravvivere alle intemperie della crisi economica e l'unica in grado di dare forma operativa e creativa a una parola essenziale rimasta orfana, dalla cui vita però dipende quella dei miei figli e di questa roccia nello spazio di nome terra: la speranza.
grazie a nome del futuro.
Teresa Ciulli

questo il testo della mail che ho inviato poco fa all'onorevole Nichi Vendola ma anche all'assessore all'ambiente regionale e al presidente della provincia di Taranto (m.losappio@regione.puglia.it ; presidente.giunta@provincia.ta.it). Ho giocato questo pezzo piccolo di democrazia che anche adesso anche in questa ora della notte puoi, possiamo giocarci. Sono idealista sì, certamente. Ma non mi voglio tirare indietro, troppe volte è accaduto, con la scusa che niente cambia. Io su di me qualcosa posso. Per esempio prendere la parola come si prende un fiore da un campo. Perchè della sua bellezza della sua verità elementare, ho bisogno.
Per chi vuol saperne di più del Parco regionale e degli interessi in gioco faccia riferimento al comitatoxtaranto@yahoogroups.com
p.s. mi accorgo adesso che solo la mail al presidente della provincia di Taranto è giunta. Le altre no, il server le ha rifiutate. Domattina spedisco una cartolina da Lecce in Regione. Una volta che hai preso la parola la devi consegnare......Lungomare Nazario Sauro 33, Bari 70121!

domenica 5 aprile 2009

Due erbari


Scrivo stamattina su una pagina di word. Non voglio entrare a scrivere direttamente nello spazio del blog. Ho bisogno di un silenzio più forte per far scattare la chiave arrugginita, antica, nella serratura della cassaforte del pensiero. C’è un libro, bellissimo, che ho visto con la coda dell’occhio, subito dopo Natale nella vetrina, in alto a sinistra, ultimo scaffale, di una nota libreria nel centro storico di Lecce. Colsi allora, faceva freddo, eravamo usciti dal cinema, solo il titolo, Herbarium e l’autore, Emily Dickinson. E poi il formato. Uno stupefacente A3 tutto rilegato come se fosse appena uscito dalla legatoria del signor Sardone. Ci ho messo forse due mesi per tornare con calma, prendendomi una mattina, in quella libreria a cercarlo. E’ stata una ossessione. Pensavo a quel libro e alle meraviglie che poteva contenere ma non riuscivo a vincere il pulviscolo delle cose da fare, non si poggiava mai quella polvere. Emily Dickinson è una delle mie amate poetesse. Di lei amo che aveva custodito le sue poesie gelosamente, in una scatola di latta, là alla sua morte hanno trovato i suoi fogli in forma di raccolte cucite a mano da lei stessa. E decine di fogli e lettere di vario formato. In una scatola di latta sotto un letto c’era una galassia intera, la via lattea, che una mano sapiente aveva saputo proteggere e contenere in uno spazio tanto piccolo da sembrare innocuo. Emily attraversa la vita tagliandola da parte a parte ma di quel taglio nemmeno una goccia di sangue si versa, solo stupore e silenzio: a cui le parole delle sue poesie hanno dato la giusta forma. I versi sono pieni di nomi di fiori e di insetti da giardino. E’ un giardino di pensieri che sono proprio certa, è il giardino del Paradiso. Quello stesso che ho trovato dipinto e cucito con fili d’oro nelle stole del 1700 che Padre Giuliano recuperò da un angolo abbandonato del Convento dove ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, San Francesco a Lequile. Mi ricordo la meraviglia che ho provato quando lui mi mostrò tutte quelle Pianete, così si chiamano, che aveva recuperato dalla sepoltura in un brutto cellophan che precludeva al loro congedo. Li ha dissepolte e portate in lavanderia e poi le ha appese e catalogate una ad una. Insieme erano e sono, dove sono adesso? un libro di preghiere, un libro di poesie, l’inizio di uno spaesamento ipnotico che porta dritti al cospetto di dio. A lui, a dio io chiederei subito adesso, come sta padre Giuliano? dove sta? Ma so che farei meglio a chiedere a padre Corrado, che è stato suo confratello, di salvare quelle pianete e sistemarle nella Biblioteca Caracciolo nel Convento di Fulgenzio così che tutti e anche io di nuovo, possiamo ammirarne lo splendore. Così come della Dickinson puoi risalire in quell' herbarium al gesto che recise il fiore. E’ il gesto della mano di una donna che ha abitato sulla terra un giardino non terrestre. E’ verde cupo, e pieno di foglie a sbalzi la copertina di quel suo quaderno, la copertina da sola ti ruba il fiato; e quello che si manifesta nelle pagine seguenti certo non contribuisce a restituirtelo. Sei in apnea davanti al suo libro pieno di scissioni di resezioni di nomi appuntati con grafia piccola e ossuta sopra lo stelo disseccato di un ramo uno stelo una escrescenza vegetale. In apnea studiando la puntigliosa ingegneria cartacea che ha portato Emily a tenere i fiori ben fermi sul loro supporto. Numerosi sono infatti i sottilissimi ponti di carta che lei incolla fra un lato e l’altro di quella foglia fiore stelo. Ancoraggi terrestri per una materia soprannaturale come sempre un fiore è. La sostanza di un petalo ha la stessa magia della nuvola di vapore acqueo, del raggio di luce che il sole ci invia come un regalo sempre immeritato al mattino. Queste barche vegetali sono sono giunte a noi da una navigazione durata miliardi di anni nel Cosmo; e questa parola da sola dovrebbe svegliarci al mistero in cui siamo immersi senza rendercene conto. Come i pesci che non sanno di essere tali perché non conoscono il nome del mondo che li contiene. Pensano che tutto finisca lì e invece c’è la terra e le migliaia di specie vegetali e animali e poi oltre la terra il cosmo. Senza nemmeno arrivare a indagare per ognuna di quelle migliaia, i milioni di individui di cui si compone la sua orchestra. E fra quelle specie, quella a cui appartengo. Uomo sapiens. Ma se mi guardo intorno no, non vedo il sapiens. Sapere sapore come scriveva Roland Barthes. Di quel sapere sapore pochi ho conosciuto che lo hanno incarnato rappresentato descritto, liberato. Di quel sapere sapore ho visto le pianete salvate da padre Giuliano, ma sono ancora in salvo? a me la responsabilità stamattina di rispondere a quella domanda e tentare la loro resurrezione. In modo che il gesto di quell’uomo non sia stato inutile. E gli anni di donne e di storie e di vicende legate alla produzione di quei fili meravigliosi: tre secoli almeno. Un’opera di protezione di cura di rispetto di amore, la stessa di quella intrapresa da una piccola casa editrice di Roma che ha editato, in una edizione pregiata come è giusto che sia, un’opera piena di mistero di giornate di mattine di passeggiate e di libri, quelli in cui Emily metteva a seccare i suoi fiori prima di conservarli in quell’archivio dalla copertina verde scuro. Un archivio di conoscenze e di dio. Di attimi. Sfoglio l’erbario di Emily e sono presa da sentimenti fortissimi. Quella è anche una tomba. Un cimitero di fiori di gesti di vita passati per sempre. Per sempre? Il libro, il tuo Emily, è l’orlo della vita visibile quella che fu a te visibile dal 1830 al 1886. A quell’orlo mi attacco come se fosse l’ultimo lembo rimasto della realtà. Oltre quelle foglie secche quei petali senza più colore che trattengono, in un incantesimo degno della Bella Addormentata nel Bosco il gesto della mano della poetessa, che poggia sul foglio e incolla e scrive i nomi. Quel libro quell’orlo è allora il luogo segreto dove sta chiusa la formula magica che addormenta il tempo. E’ un sonno reale, i fiori russano appena e tu fai piano piano piano, per non svegliarli, per non sovvertire l’ordine imperioso, d’acciaio, che consegnò quei fiori al loro sonno. Sono adesso come una barriera, un terrapieno, una diga, che contiene la sapienza contro l’insipienza e il nulla, e il chiasso che avanza facendo più baccano di altre qualità che pure avanzano, ma in silenzio, per farsi intendere. Allora nell’erbario c’è custodita, in una elegante edizione rilegata, la mano di Emily. E’ come trovare l’impronta dell’astronauta sul suolo lunare. Nell’erbario troviamo l’impronta delle sue mani. Quel libro è la luna. Un silenzio perfetto e nemmeno un filo di vento turbano una quiete che non viene dalla morte ma da un destino umano vissuto pienamente e fino in fondo; con un’intensità infantile e la lucidità di un monaco stilita. Se sei pronto a tremare vai in libreria e chiedi pure del libro. Anche il costo ammutolisce ma è senz’altro il costo minore fra quelli che ti aspettano. Emily ti verrà addosso a bomba “con due emerocallidi in mano vestita di picchè bianco, assolutamente lindo, e sopra uno scialle blu di lana pettinata” . E’ agosto del 1870 è aprile del 2009. Di qua c’è Thomas Wentworth Higginson che sarà poi il curatore insieme a Mabel Loomis Tood, della prima pubblicazione nel 1890; e di qua, ancora più in qua, c’è un libro che costa 120 euro la cui copertina dentro si è già un po’ incrinata ma è come aprire l’armadio dei suoi vestiti dopo centoventitre anni. E toccare con la mano, la tua, la sua stoffa.

martedì 31 marzo 2009

c'è un ibiscus rosa vicino a te


grazie è una parola con le ali.
Vola verso chi ha reso con la sua presenza belli i nostri incontri del 28 e del 29 marzo, al Castello. Vola verso chi non c'era ma mi ha pensato con amicizia affetto stima.
Vola verso i bambini che hanno riempito di storie il mio baule nel 2004 e che ho ritrovato l'anno scorso su un'altro progetto. Loro io lo so, lo sento lo capisco, sono il futuro e a quel futuro va il mio impegno, anche quello, modesto certo oggi, di scrivergli grazie su questa pagina di blog.
Il loro futuro che è anche quello dei miei figli mi obbliga a fare meglio e dippiù.
Il merlo di Beatrice mi manca. L'ho liberato al castello il 28 che teneva nel becco l'ora della terra e il 29 che teneva l'iniziativa di Libera, la straordinaria associazione di Don Luigi Ciotti, per raccogliere, fino al 30 marzo, con un sms i fondi per impiantare una cooperativa nelle terre confiscate alla mafia nella zone dove quindici anni fa fu ucciso don Beppe Diana, un sacerdote che con la sua vita testimoniava i valori della giustizia, che prima di essere patrimonio del Cielo è patrimonio della terra. Fu ucciso in chiesa a Casal di Principe il 19 marzo del 1994. E oggi 25 anni fa, il 31 marzo del 1984, fu uccisa a Nardò sotto il portone di casa sua Renata Fonte. Aveva 33 anni ed era assessore alla cultura del suo comune. Guidava in quei mesi un movimento di persone a difesa di una delle zone di terra e di mare più belle d'Italia, dal 2006 Parco regionale di Porto Selvaggio. Interessi edilizi speculatavi e interessi politici, si fusero e Renata Fonte fu uccisa. Sui giornali di oggi trovi le sue immagini, appartengono a un'altra epoca storica dell'Italia, un paese che mi ricordo bene, ero già grande. Fra quelle una mi colpisce. Lei ha un fiore di ibiscus fermato dietro l'orecchio sinistro, fra i capelli che sono lunghi biondi ondulati. E' una immagine a colori, di una estate. Il fiore è rosa. Mi viene da chiedere a tutti voi il racconto di quel fiore. Lo raccolse lei, le fu regalato e da chi? Se potessimo con la nostra azione, anche immaginativa fermare la storia prima del suo epilogo regaleremmo a Renata un'altra vita, perchè la innesteremmo oggi nella nostra. Così la prossima volta che ci sarà da rifiutarsi di pagare una tassa su un parcheggio abusivo, lo faremo. Così la prossima volta che ci sarà da dire a qualcuno che ha buttato per terra una carta, lo diremo. Sembra che la mafia sia tanto lontana da noi e invece è proprio qui vicino vicino vicino. Basta starsi zitti quando qualcuno tratta male una cosa che appartiene a tutti, che è pubblica, che è mia anche, e tua e sua e dei miei figli. Così la prossima volta, se saremo capaci non ci sarà da far alzare il volo il merlo di Beatrice con la parola grazie nel becco: grazie lo diremo a noi stessi e sarà una parola bandiera piantata sul primo centimetro della tempo che verrà.
teresa

venerdì 27 marzo 2009

in fine


domani pomeriggio e domenica pomeriggio dalle 16 alle 17.30 sarò al Castello Carlo V a Lecce. Racconterò in quello spazio di tempo due storie diverse: domani una storia gialla e domenica una bianca. Uscirono fuori cinque anni fa ormai, da un progetto di continuità didattica che feci con sessanta bambini fra i cinque e i sei anni. Era fra le prime cose, le prime attività che svolgevo con i gruppi. L'arte come strumento e come fine di un processo di esperienza che ruota intorno al bisogno di bellezza, ma anche a una determinazione a costruire memoria e memorie, avendo fra gli scopi quello di arrivare a un libro manufatto. Racconto queste due storie dentro un contenitore che è la rassegna d'arte Artwoman curata da Marina Pizzarelli che quest'anno è dedicata al design. Io credo di aver costruito in questi ultimi cinque anni diversi progetti di design, sociale. Ho progettato per gruppi e per piccole comunità di adulti, e di piccoli, attività che avevano come fine l'educazione alla bellezza e l'educazione alla memoria.Non perchè io sia educata, al contrario. Spesso facciamo le cose per insegnarcele a noi stessi, per collocarle e sapere dove stanno in quel momento vive in noi. Così ho tracciato una mappa di bellezza e di memoria ma per chi incontro e mi ha conosciuta artista secondo i canoni dell'artista che fa il quadro le sculture e poi le mette in mostra, io non c'ero più. E invece c'ero e ci sono fra persone con cui in questi anni è stato emozionante lavorare insieme: parlo di Clara Russo, un nome per tutte le maestre dell'Istituto comprensivo di San Donato con cui ho collaborato a frammenti e pezzi, ma assai intensamente in questi anni; e poi parlo di Valentina Sansò con cui costruiamo e scriviamo in un presente che non diventa mai passato la storia anzi, la cronaca, del nostro gruppo lettori Germinazioni. Sono sorellanze quelle con Clara e Valentina che hanno prodotto maternità. Molte inedite storie collettive. Sarebbero rimaste inaudite e per sempre irreali se non le avessimo portate sulla Terra. Domani e domenica vi mostro i tiranti le corde, le funi di quelle storie: l'emozione di una parola che sgorga dalla vita di un bambino o quella che ti precipita addosso senza preavviso. Io per prima sono stata presa alle spalle e non sono riuscita se non facendomi venire il torcicollo a guardare in faccia ciò che si mostrava a me, a noi, ogni volta come un regalo inatteso: una sopresa. Questa è per me l'arte. Il dolore a cui non voglio rinunciare. un bacio senza novalgina.

Teresa

lunedì 23 marzo 2009

Esami per tutti


Martedì scorso, il 17 marzo, si è svolto il primo consiglio di classe. La professoressa Maggiore ha riferito che il lavoro didattico si sta svolgendo regolarmente; che la classe non presenta situazioni di difficoltà e che è soddisfatta di come procede la preparazione. Nei mesi precedenti alcuni alunni hanno frequentato per alcune ore pomeridiane un potenziamento per la lingua italiana, il corso di latino; e una attività di recupero per la matematica. Chiede tuttavia di intensificare lo sforzo nella preparazione orale. Ritiene utile che gli alunni prestino particolare attenzione alla preparazione orale: a esporre a collegare gli argomenti a stabilire relazioni fra le conoscenze anche appartenenti a discipline diverse. Perché l’esame di terza media considera particolarmente, nel voto finale, questa abilità cognitiva e linguistica. Ritiene che il lavoro di esposizione orale debba essere fatto a casa da ciascuno poiché in classe si può solo apportare qualche modifica, proporre qualche suggerimento e non di più, per il poco tempo, i molti aspetti del programma, la classe numerosa. Gli esami di terza media si svolgeranno a metà giugno; ci saranno cinque prove scritte: italiano, matematica, inglese, spagnolo (per noi) e poi una prova ministeriale che è il primo anno che si attua, in cui verranno proposti nella stessa giornata due prove: italiano e matematica in forma di schede a scelta multipla. Sono prove scritte che i nostri figli già conoscono, nella forma e nei contenuti, perché negli anni scorsi la scuola ci ha tenuto a proporle, sono le famose prove invalsi, oggi prove ufficiali di valutazione nell’esame di licenza media. La Commissione di esame è costituita da tutti i docenti della classe e ha come commissario esterno un preside proveniente da un’altra Scuola media. Molta importanza si attribuisce al colloquio orale in cui l’allievo parte dalla esposizione di un argomento a sua scelta da sviluppare in forma multidisciplinare. La capacità di collegare le conoscenze e i saperi è una abilità su cui è utile prepararsi fin d’ora, questa la raccomandazione che ci è rivolta.
Viene successivamente toccato il capitolo della gita che martedì scorso non ci è stata presentata in dettaglio poichè ancora si attendevano i riscontri dalle agenzie. Abbiamo poi due giorni fa ricevuto tutte le informazioni relative e il modulo di partecipazione. Come sappiamo la gita a Porto Recanati Ravenna e Venezia riguarda solo le terze di Castromediano; sarà affittato un pullman a due piani per la circostanza. Le insegnanti che accompagneranno la nostra classe sono le professoresse Maggiore e Solazzo (Spagnolo).
Altro argomento è l’adozione dei libri di testo. La professoressa Maggiore vorrebbe sostituire quelli di Italiano e Antologia, ma le nuove norme che regolano la scelta dei testi rappresentano un ostacolo significativo a questa esigenza. E’ obbligatorio adottare per almeno sei anni; ci sono vincoli di prezzo, i libri non devono superare una certa cifra, e devono essere fruibili via Internet. L’anno prossimo ci sarà un cambiamento orario nella giornata scolastica, la Riforma Gelmini tocca l’attuale organizzazione del tempo avendo ridotto il monte ore di alcune materie. Italiano passa da 11 ore settimanali a 9; Tecnologia perde un’ora; le cattedre saranno ridimensionate e l’orario ridotto a 30 ore settimanali invece delle attuali 32. Una manovra che ha come obiettivo la riduzione del numero degli insegnanti, cioè dei costi di gestione della scuola, che andrà certo ad accrescere le difficoltà in cui la scuola pubblica si trova già ad operare. La sofferenza in cui versa questo bene collettivo che è la Pubblica Istruzione si manifesta anche nei comportamenti che i nostri figli assumono a scuola. I professori si mostrano affranti, delusi, ma anche disorientati da un fenomeno che quest’anno si manifesta in una forma inaspettatamente violenta. Nei bagni dei ragazzi sono state distrutte due porte. Hanno sfondato e aperto per ciascuna porta dei grossi varchi, tali da rendere inutilizzabili i bagni. E’ un atto di vandalismo. Anche i bagni delle ragazze sono oggetto di violenza anche se apparentemente meno eclatante. Sono stati sporcati coi pennarelli e la bidella si lamenta del lavoro di gomito che deve quotidianamente affrontare, e divelti staccati in alcuni punti della parete gli imbotti, e avviata l’apertura di un buco nello spessore di una porta. La professoressa Maggiore ci ha fatto notare che i bagni sono insufficienti, come numero, per la popolazione di studenti che li utilizza e dunque questi danni rappresentano l’ulteriore riduzione di un servizio già insufficiente in buone condizioni. Ci ha riferito di aver affrontato in classe, in III F l’argomento, che ha chiesto ai nostri figli di guardare a questi gesti, che si compiono a volte sotto i loro occhi e con il loro silenzio complice, con una consapevolezza e un senso di responsabilità che non ha tuttavia dato risultati. I colpevoli sono protetti dalla debolezza dalla indifferenza dalla mancanza di affezione ai luoghi pubblici di tutti gli altri. E’ un segno di fragilità morale che toglie dignità: coraggio, fiducia in se stessi e nel valore su cui fondiamo la convivenza, il rispetto. E’ il primo anno che si verifica un fenomeno così grave, ci dicono gli insegnanti. Due anni fa, o l’anno scorso non ricordo, c’era stato un episodio analogo, ma assai meno grave e la porta era stata rattoppata e dunque tutto quello che è accaduto è accaduto quest’anno: ed è successo davanti agli occhi, nel caso migliore, dei nostri figli. Non so cosa dire. I professori ci hanno tenuto a mostrarci questo vile scempio. Vile in chi l’ha operato e vile in chi l’ha protetto. Quel buco sulla porta, quei buchi, quelle voragini, sono i buchi della nostra educazione. Due anni fa fu tappato, oggi non si può più. E’talmente grande che le porte devono essere sostituite. Mi sembra un doloroso verdetto su di noi come genitori. E come adulti.

Teresa Ciulli, mamma di Amalia

Al consiglio di classe oltre alle insegnanti hanno partecipato le mamme di Ludovica e di Emanuele.

giovedì 19 marzo 2009

piccola tappa nella scatola della tivù

ieri pomeriggio nello studio televisivo di una televisione locale. Mi butto in una situazione di cui non conosco le coordinate, se non: vado alla televisione. Che errore. C'è televisione e televisione (forse), programma e programma, conduzione e conduzione: stile e stile. Che errore. Pagato ritagliandomi in una eccessiva rigidità come se automaticamente la parola sotto i riflettori si flettesse nella finzione. Sono stata al gioco, è vero. Ma potevo sceglierlo e invece ho preferito ignorarlo. Ci sono contesti come quello di ieri pomeriggio in cui la comunicazione è volutamente frivola, deliberatamente costruita a impegnare pochi neuroni, caso mai si stancano. In quel contesto suona fuori misura e sfiorisce subito una parola che si schiera dal lato del senso. Meglio sarebbe stato ritagliarsi uno spazio di parola nel cono d'ombra dell'ironia che fa luce sul mondo intorno.

mercoledì 18 marzo 2009

il cappello sulla mia testa


il design sociale, e che cos'è? E' un nome, arbitrario certo, imperfetto certo, che ho messo come un cappello in testa a tutte le cose le attività i progetti che ho fatto negli ultimi cinque anni. Per caso in questi ultimi due mesi, poichè partecipo con due attività il 28 e il 29 marzo ad ArtWoman09 presso il Castello Carlo V a Lecce, mi sono trovata lanciata in questo processo di dare un nome a ciò che ho fatto, tanto, tantissimo soprattutto per l'impegno e l'entusiasmo che ci ho e ci abbiamo messo. Come ho scritto non mi ricordo più dove, è cambiata la scala di realizzazione del mio pensiero della mia visione. Prima era tutta consegnata, nell'attimo in cui essa si manifestava, nel perimetro del mio tavolo di lavoro, un quadrato due metri e mezzo per due metri e mezzo. Negli ultimi anni invece essa è solo l'incipit, l'inizio di una avventura che coinvolge altre persone oltre me, che da quella porta iniziale si inoltrano in una esperienza che andiamo a fare esistere con la motivazione l'entusiasmo il desiderio collettivo. Alla fine di questa esperienza abbiamo costruito una storia che prima non c'era e adesso c'è. Ho sempre raccontato storie, sempre unito l'immagine alla parola: cervello destro e cervello sinistro. Io vivo su quella confluenza sono nel ponte che unisce i due emisferi. Là compio me stessa, nel corpo calloso della mia testa. Negli ultimi anni invece le storie le inseguo insieme agli altri, in un gruppo. E' cambiata la scala di realizzazione dell'idea; dell'immagine della visione. Un designer è uno che fa un prototipo in cui la funzione di un oggetto è enfatizzata al massimo e incarnata in una inedita forma estetica finale, e quello è l'inizio anche di una nuova dimensione dell'oggetto, una nuova maniera di viverlo e usarlo: cambiandone il legame antropologico. L'oggetto viene così, dalla sua industrializazione, come ribattezzato daccapo, gli viene data una seconda vita, una seconda biografia, un altro destino. Anche io uso l'arte come mezzo per un fine che non è più solo artistico: la memoria, la malattia della letteratura, l'abbattimento delle barriere; quelle che separano i piccoli dai grandi i malati dai sani. L'esisto finale sono dunque azioni complesse che riesco a portare a termine solo perchè le faccio insieme ad altri. Nutrendomi e facendo entrare in sinergia, dentro un circolo virtuoso, gli entusiasmi le motivazioni l'amore per la bellezza, le professioni. Ho lavorato molto nell'Istituto comprensivo di San Donato di Lecce con insegnanti che hanno un grande amore per il loro lavoro, cinque parole ormai in disarmo come una nave a vapore, e fra loro certo Clara Russo che ha una innnata capacità, da vera maestra, a tirare fuori il meglio da ciascuno e non scherzo se dico che lo ha fatto e ogni volta che le capito a tiro lo fa anche con me, e io ne sono felice perchè sempre abbiamo bisogno di una fune per tirare fuori dal pozzo l'acqua e se le funi sono due ci bevi per un mese intero. E poi collaboro dall'anno della sua fondazione con il Presidio del libro e oggi anche Associazione culturale Germinazioni, ovvero con Valentina Sansò e con il gruppo dei lettori del Centro di riabilitazione psichiatrica del CIM di Lecce. Valentina è l'altra persona che riesce a tirare fuori da me l'impensabile, perchè lo tira costantemente fuori da se stessa a trecentosessanta gradi di creatività. Credo che con loro, con queste belle figure di donne di professioniste di esseri umani condividiamo lo stesso bisogno: trasformare cambiare la realtà, trovando una corda abbastanza potente, perchè invisibile e nessuno nemmeno noi la possiamo più tagliare, per agganciare l'immaginazione in mezzo a noi. Come un dirigibile in sosta sul prato laterale, quello vicino alla rete di recinzione, di fianco a quella chiesa romanica con il portone di legno sempre aperto, dove ci sono mosaici la cui bellezza non immagini. Se ti capita di passare da lì fermati e stupisciti.

post scriptum:
cara Beatrice Alemagna ti ringrazio del merlo che ho potuto mettere sul mio cappello giallo, quello che ho trovato nel tuo bellissimo libro in francese un e sept che ho comprato anni fa in quella meravigliosa libreria di Bologna che si chiama Giannino Stoppani. E ringrazio anche Sara Leo, altra meravigliosa figura di maestra di donna di mamma di pianista che mi rende possibile in questi mesi un viaggio nella creatività insieme a lei alle sue figlie ai miei figli. Quel merlo è uno sfrido di lavorazione di un nostro pomeriggio di tastiere: quelle del piano e quelle della tavolozza. E "the last but not the least" ultimo ma non meno importante, la necessità di raccontarmi agli studenti dell'ultimo anno del Liceo di Fasano. Quante storie dentro un cappello che vola. Certo, altrimenti non potrebbe.

giovedì 12 marzo 2009

martedì 10 marzo 2009

martedì 3 marzo 2009

La collezione di ahia


Leggo da quando sono piccola. Leggere è stata la mia prima abilità. E la prima esperienza carica di magia che potevo compiere da sola.
Cos’è leggere, voi lo sapete.
E’ un gesto che manifesto ed esercito tutti i giorni: cinque minuti ormai, prima di andare a dormire.
All’inizio degli anni 90 ho scoperto un altro gesto capace di emozionarmi. Fu scrivendo una lettera d’amore. Quelle parole non volevano starsene ferme sul foglio, si muovevano, volevano mettersi in mostra farsi vedere meglio. Così le ho imbarcate, trasformate in bandiere, disseminate su una pista come briciole di pane.
Entrare dentro la pancia delle parole esplicitare le loro metafore saccheggiare tutta l’emotività che ci sta dentro era diventata la mia preoccupazione principale. Ho dedicato molte mostre a esplorare il confine fra la parola e la sua ombra fisica, tattile, tridimensionale. Mentre ero su quel confine, dall’altra parte ho incontrato gente. Dapprima venivano a trovarmi per chiacchierare un po’, poi per chiedermi di saltare il muretto e andarli a trovare a casa. C’erano famiglie da quella parte, bambini da quella parte, c’erano scuole, e volevano conoscermi. Ascoltare e magari giocare con me e imparare quando si può, a entrare nella pancia della parola. Dissi di sì la prima volta quasi dieci anni fa. Prima di quel salto pativo, ma anche cercavo, la solitudine. Ore e ore sequestrata da me stessa e aveva finito per non bastarmi più. Anche le telefonate mi davano fastidio. Cresceva in me una pianta, rapidamente, e toglieva spazio al resto, e al cielo anche. Non so chiamarla per nome. So come è fatta. Di tante ore da sola. E più ero sola più volevo essere sola. Il silenzio è lo spazio fisico che forse amo di più di ogni altro ed è quello che nei momenti di grazia ho consegnato all’opera, nell’opera. Forse non era la solitudine ma il silenzio che cercavo di difendere così tanto. Solo che quando ce n’è troppo, quando dilaga, lo smarrisci lo perdi nella solitudine e non ricordi più la sua qualità essenziale la sua necessità: che il silenzio è una condizione interiore prima di essere esteriore e che è tanto importante perché lì, nel silenzio, si manifesta e mantiene viva la domanda che ci nutre. E’ sempre la stessa. Chi sono, perché sono qui.
Il paradosso è che la domanda, quella domanda, nasce dall’incontro col mondo. Se io sto ferma e chiusa in bozzolo che domande più posso farmi? Ripeto me stessa come si ripete la melodia nel disco di vinile che si è scheggiato. Così sono andata, ho saltato il muretto della solitudine della mia condizione di artista e sono andata fuori dal mio spazio, perché avevo bisogno del mondo, cioè di innamorarmi. Di entrare in contatto con l’altro con ciò che non conosco e che non mi conosce. Per uscire fuori dalla mia orbita. Volevo cadere di nuovo, e farmi male. Perché in quell’ahia c’è che sei vivo e cerchi un equilibrio che non hai più se mai l’ho avuto. Così ho messo in fila in questi anni ultimi la mia collezione di ahia. Una collezione molto disordinata come si conviene a una raccolta così intima.
Sono caduta di proposito. Come quando ho fatto Cappuccetto, arrivandoci attraverso un libro di Munari, con sessanta bambini, nel 2004. E’ stato bellissimo ci siamo fatti male in tanti ma eravamo felici con i nostri ginocchi sbucciati. Poi quando ho cominciato a collaborare con Valentina e abbiamo avviato il Presidio. Sono tornata lettore, nel mio rango originario. Abbiamo prima fatto Compagine, otto incontri a rimurginare sui tic sulle ritualità sulle abitudini legate alla lettura e poi, come se si fosse aperta una diga, è seguito con il Presidio un flusso di attività che non si è più interrotto. C’è stato Verso il largo, poi Pagina 58 emozionantissima, i cui echi incontriamo ancora e mi fanno inciampare, cadere ma con un ahia di felicità. E tutte le attività collaterali che leghiamo a un progetto, come gli anelli di Giove che fanno bello il pianeta e ricco di qualcosa di unico. Fino a ieri, fino a Etty, alla giornata della memoria; attraversando di nuovo la strada per andare a lavorare nella scuola elementare su progetti che partono sempre dal libro e dall’amore per la parola. A quell’amore, tutto quello che faccio da sola e con gli altri, torno. Anche oggi qui a Fasano insieme a voi, qui torno. Facendomi male anche oggi, collezionando anche oggi il mio ahia che consegna e certifica a me stessa che sono viva in un compito ancora una volta nuovo. Raccontare a un pubblico di ragazze di ragazzi, e non da sola ma insieme a Claudio Luca e Valentina che ci faccio io qui, con loro e con voi. Lo vorrei sapere pure io, e proprio perché lo vorrei sapere ho accettato di venire. E’ che da molti anni a questa parte quello che vedo, che anticipo con la testa, che immagino, lo condivido e lo innaffio insieme agli altri. Sono pensieri che mi stupiscono proprio perché la loro scala di realizzazione non è più quella che si misura in metri sul mio tavolo da disegno nel mio studio, ma quella che si misura in chilometri su altri tavoli fuori dal mio studio; dentro una scala di realizzazione che include un gruppo di persone e da quelle, se e quando riusciamo, una società, gruppi, contesti. Adesso quando sbaglio mi faccio male davvero. La mia collezione di ahia si è arricchita di un dolore che prima non conoscevo. Valeva la pena? Valeva la pena diventare più consapevoli se più complessa, più tormentata, più impegnativa si è fatta la mia vita? Non rispondo ma con le parole predispongo il silenzio che come un paracadute fa atterrare dolcemente questa domanda: senza farsi male.

domenica 22 febbraio 2009

Storie di traverso


Ci sono cose ci sono persone che riescono a mettersi di traverso su una porta, e non farla chiudere mai. Dico per sempre, mai. Magari è solo un piede che riescono a infilare in quel battente, magari solo quello, o forse l’angolo del loro cappotto o della gonna, un piccolo spessore sufficiente a non far chiudere quella porta. Mai, per sempre aperta. E da quell’interstizio, da quel varco che quei coraggiosi, quegli eroi loro malgrado riescono a tenere aperto, puoi vedere tutta la storia del secolo scorso e riflettere. Attraverso loro guardare la incredibile complessità della vita delle esperienze delle vicende storiche del Novecento. Che non è vero che le abbiamo alle spalle. No, davanti le abbiamo. Finchè non avremo risolto in noi le ragioni che hanno portato comunità, paesi, nazioni, ad annientarsi reciprocamente. Come è potuto accadere è la domanda. Da quella porta aperta la domanda va e viene e non si chiude mai. In questi ultimi mesi ci ho riflettuto attraverso la lettura di Etty Hillesum che offre di questa catastrofe della civiltà una chiave di interpretazione davvero rivoluzionaria. Lei ebrea, lei offesa e perseguitata, non ha nutrito il male ma il perdono; il bene, l’ammirazione per come degli uomini, per quanto impreparati fossero, riuscissero a sopportare il dolore. Il dolore è per Etty la soglia che tutti dobbiamo varcare per diventare persone, una soglia che per lei ha avuto nella Storia tanti nomi e che nel Novecento ha preso quello dello sterminio di massa. E’ come ti poni davanti al dolore, è come lo vivi, come ti mantieni libera nonostante esso, che fa di te un uomo, una donna. Lei non cercava carnefici fuori di sé, cercava di tenere a bada il male dentro di sé. L’ha legato, addomesticato, se lo portava al guinzaglio; lo ha portato fino ad Auschwitz legato così: come un cagnolino. Più di farmi a pezzi non potranno, appuntava nel suo diario. La morte è un episodio della vita del corpo che non coincide con quella dello spirito. La morte dello spirito è il peggior male che possiamo contro noi stessi. Perché non sono gli altri, mai, a offenderti in quel luogo così tanto profondo, intimo, irraggiungibile. Non ha odiato nessuno ma ha amato smisuratamente il suo passaggio terrestre. Anche il campo di lupini, viola, oltre il filo spinato, a Westerbork, che guardava insieme al suo amico Joopie. Ieri, un’altra vicenda ancora su quegli anni, un film, The Reader, del regista inglese Stephen Daldry. La storia di un ragazzo tedesco di quindici anni che conosce nel 1958 una donna venti anni più grande. Si amano come possono amarsi due vite che stanno dentro l’assoluto. Quello della giovinezza e quello della colpa. La storia d’amore dura un’estate poi lei scompare. Il ragazzo la ritroverà per caso, imputata in un processo contro i colpevoli dell’Olocausto. Lei è accusata di omicidio e favoreggiamento. Durante il processo si difende facendo appello ai suoi compiti, al ruolo, al lavoro di sorvegliante per cui era stata assunta. Che doveva svolgere privandosi dei sentimenti pena il caos. Un professore di diritto che segue con i suoi studenti questo processo, e fra loro c’è il ragazzo della storia d’amore, suggerisce che le società vanno osservate non sotto la lente della morale ma sotto quella della legalità. Senza spaventarsi davanti alla crudeltà e ai paradossi che questa riflessione genera. Ci sono contesti, tempi storici, politiche, in cui è legale un comportamento che invece sotto il profilo della morale è delitto. La donna non ha ripensamenti, la donna non nutre sensi di colpa: lei ha eseguito un compito così come le era stato assegnato. Pare non cogliere la gravità. E’ apparenza, è un controllo inverosimile su se stessa che forse le consente altre forme di controllo. E’ lei che si condanna al carcere scagionando le altre cinque sorveglianti che, come lei, avevano avuto lo stesso ruolo nei fatti di cui è accusata. Sul ragazzo che conosce la verità di quel gesto di cui lei si auto incolpa, pesa la scelta, che si rifletterà nell’estensione della sua vita, di averle lasciato la libertà di annientarsi. Per un giovane studente di legge è un gesto di una solitudine che ha mille anni già compiuti. Più tardi lui la cercherà la aiuterà a compiere un cammino, aiutando anche se stesso in una forma che mi ha lasciato i lividi sul cuore. Il bene e il male non stanno divisi. Sarebbe troppo facile se fosse così. Basterebbe un bisturi e un buon chirurgo e si toglierebbe via quella parte che non va. Non bella; non buona. E invece i giudizi di valore che nascono dentro le società, e le civiltà, non consentono e meno male, che si formino due metà così contrapposte. Se tu tagli il male da qualcuno ne tagli anche il suo bene. E anche al contrario funziona. In cosa sperare allora. Etty diceva che le persone nascono con una età dell’anima. L’età dell’anima è diversa dall’età biologica. Non solo. Essa resta sempre quella. Una intuizione affascinante; accende una luce per leggere dentro di noi e sugli altri. Il ragazzo che ha amato quella donna è nato con una età vecchissima. Come la donna stessa. Due anime millenarie che si sono incontrate nel 1956 e lasciate nel 1995, attraversando il secolo più oscuro di tutti. Nell’amore per i libri nell’aver imparato a leggere c’è, io la intravedo, la chiave di lettura di questo film che nasce da un romanzo scritto da un giudice tedesco, oggi professore di diritto a Berlino, Bernhard Schlink, che ha la stessa età dei protagonisti della sua storia nel momento in cui essa finisce di essere scritta. In quel piede che qualcuno: una donna fuori misura come Etty, due ritratti umani usciti dalla penna di un grande narratore, in quei piedi, sono tre, li vedo, due di donne, e sono scalze, e uno di ragazzo, porta i calzettoni, in quei piedi che evitano che si chiuda quella porta che rappresenta il Novecento sta il dono che mi sopraffà. Posso ancora entrare là dentro. Nella culla della storia. E’ piena di neonati e di morti e un amore immenso fluisce verso di me. Sta chiuso in una scatola di latta, vecchia. La scatola perduta da una bambina ebrea al campo. Cinquanta anni dopo le viene restituita. Non è la stessa. Ma ci somiglia. La poggia vicino a una vecchia fotografia in cui una grande famiglia stesa su un prato sorride a qualcuno: sono felici. Quella scatola è l’ultimo oggetto terrestre di Hanna, dentro ci sono tutti i suoi pochi soldi, tutta la sua vita. Adesso che è vuota si vede.