Non so chiamarti. I titoli mi vengono sempre alla fine delle cose dei processi delle storie che racconto, per immagini o per testo. Che racconto ai bambini durante un processo di educazione e autoeducazione alla bellezza e allo stupore che dura anche un intero anno scolastico. E così non so dare il titolo a questo che oggi, stamane, è solo un bisogno. Rendere pubbliche le mie tracce di questi anni. Il sito che avevo messo su e pubblicato nel 2002, opere di carta, non è mai stato abitato. Non conoscevo il linguaggio che mi consentiva di entrarci quando potevo volevo sapevo, necessitavo. Così quella casa, nata già con le tubature sgocciolanti, ha continuato a perdere acqua senza che io riuscissi a fare nulla per lei. Troppo complicato. E’ rimasta così in tutti questi anni. Una casa con le porte e le finestre aperte ma in realtà disabitata. Me ne rammarico fino a un certo punto. Forse cercavo quello che alla fine solo in questi mesi ho trovato. Uno spazio in cui abitare in questa dimensione immateriale e affascinante del web. Ma anche complicata pericolosa superficiale. Una superficie che porta all’estremo i nostri tic le nostre nevrosi le parti infantili di noi ma anche quelle serie. E’ serio infatti per me adesso il bisogno di condividere il patrimonio di pensieri e di passi compiuti in questi anni, quasi dieci ormai. Mi sembra di abitare in un luogo deserto. Quello che lancio di qua sono aerei di carta. Forse così posso chiamare il mio blog. E disegnare, o provare a farlo, traiettorie in cielo che vanno verso Nord, l’arte. Verso Sud, la scrittura. Verso Est, la famiglia e gli affetti e verso Ovest, i conseguimenti, gli obiettivi, le storie e le scoperte del mio fare e del nostro: perchè sono diversi anni ormai che immagino storie che riguardano e che si fanno, e che realizzo insieme ad altri con cui condivido una passione, due: l’amore per la bellezza la passione per la letteratura.
Al centro di questa rosa dei venti, di questo aeroporto virtuale, ci sono io e questo gesto nudo semplice vitale. Spostare di pochi centimetri e staccare da me separandomene, ciò che mi è accaduto di fare di pensare di vivere.Saranno pure tre centimetri più in là ma la tua mano che raccoglie quell’aereo caduto può decidersi di lanciarlo ancora una volta. Ne perderò allora le tracce fisiche ma non quelle per cui quell’aereo ho deciso di lanciarlo da qui. Per affidargli altri padri madri sorelle amici. Io da sola non posso dare a ciò che faccio la ragione per cui lo faccio. Sospendere incantare sciogliere il tempo e trasferirlo altrove. Su un foglio di carta tenuto forte con le loro mascelle da queste formiche che sono le parole; da questi segni di matita che sono l’eco delle mie scarpe.

mercoledì 29 febbraio 2012

ho sete di me
2012
56 x 56


martedì 28 febbraio 2012




Uno fa un nodo a una matita
per ricordarsi di una cosa importante:
hai disegnato stamattina?
Hai tirato fuori il tuo dolore
la tua difficoltà
o hai lasciato che quelle prendessero il sopravvento
e ti lasciassero muta
incerta
insicura
a girare intorno a te stessa senza via d’uscita?
Un nodo alla matita uno lo fa
per fare uscire la pioggia dai capelli di una donna
che ha sete di se stessa
prima di ogni altra cosa.
Io l’ho fatto quel disegno.
Allora, il nodo, adesso, lo sciolgo.
Si, Teresa, scioglilo.
La tua donna che ha sete di sé è davanti a te, esiste.
L’hai tirata fuori dal nulla.
Vive adesso sul cavalletto. Si guarda intorno,
ha alcune villette, e finestre,
dall’altra parte del balcone.
Chissà se è contenta di stare al mondo e di stare qua.
Io sì, di lei.
Non perché è bella come avrei sperato
ma perché, invece, racconta un’altra storia ancora:
di tutta l’acqua che ho dovuto bere,
che anche altri, animali piante uomini, hanno bevuto
nei miliardi di anni scorsi,
per arrivare a tirarla fuori dal suo buio.
In realtà: dalla pena dalla rabbia dalla tensione,
oggi l’ho estratta.
Come un minatore ostinato me ne sono
andato lo stesso in miniera.
Ho dato colpi di sghimbescio
il martello mi è sfuggito più volte di mano
cadendomi sui piedi
ahia, ahia,
ma poi dicevo:
non fa niente
va bene lo stesso.
Questo disegno di me racconta:
di quanto io abbia avuto bisogno di lui oggi.
Per sciogliere un nodo che avevo in gola.
Erano lacrime:
acqua salata.




sabato 25 febbraio 2012





dieci dita non bastano
soprattutto se due sono impegnate a battere sulla tastiera
quattro, per parte, a pelare le patate
cinque a raccogliere da terra i panni sporchi
e le altre dieci a stenderli .
Dieci dita non bastano
ma neanche venti:
i buchi da chiudere sono
trentamila:
basta a fare quello che non si può fare.
Adesso mi siedo e guardo il mondo attraverso la mia gonna
il mio braccio
la tasca destra del cappotto
Vedo tutto un altro paesaggio.
Vedo un'amica che mi saluta e mi sta aspettando.
Adesso le dita mi conviene usarle
tutteeventi
per andare a trovarla.
Le mani, le dita, le devo poggiare sul volante
prima però, le devo staccare dalla tastiera.
Servono le dita, le mani,
a promuovere la vita.
Anche quella che pare un colabrodo.

Dieci dita non bastano
2012
57 x 59

giovedì 23 febbraio 2012

le notti in bianco

Sull’altopiano di Serrisi in provincia di Crotone, qualche giorno fa. La neve nei giorni precedenti aveva coperto ogni cosa, tranne gli alberi. Pini sparsi e soprattutto faggi spogli. Delle scope a testa su. Una trama di dita nude in una immobilità sonora prima ancora che fisica. Il silenzio è la neve. Essa non copre soltanto la superficie del mondo ma anche le sue urgenze passano in secondo piano. Come la terra possa sopravvivere a questa dura prova è per me un mistero affascinante. Al peso del freddo, alla  stagionale sepoltura. Fuori solo le povere costruzioni in cemento, l’altalena rossa, le orme di un cane affamato; fuori, la limpidezza del cielo che indossa il suo abito per la sera. Uno smoking di stelle affilate come punte di ghiaccio. Eppure laggiù, lassù, quelle son fornaci. La distanza è tale che non mi consente la giusta esperienza. Meno male che ci sono i libri per questo. E l’età in cui li ho letti; altrimenti sarebbe povero lo sguardo. Anche la neve è utile alla montagna, e forse anche agli uomini. Consente loro un riposo fisico che negli altri mesi dell’anno in quelle difficili condizioni ambientali non è possibile. Lavorare in montagna è certo faticoso per chi, come è accaduto fino ad alcuni decenni fa faceva il boscaiolo, e poi si doveva occupare di trasformare quella legna in carbone, un processo di estrema sapienza, enorme fatica. La civiltà della neve è legata al poco materiale. Ma al molto spirituale. Sarà quella lunga abitudine all’attesa, quel sintonizzarsi al silenzio dei mesi invernali, che il silenzio è una porta da cui passa tutto e nel passaggio si arricchisce di qualcosa mentre ne perde tante altre, perché tutto non si può avere. Sarà che in questa estrema relazione, gli uomini gli alberi gli animali le stelle il fumo che esce dai camini, condividono la stessa condizione, la pazienza; sarà infine per la bellezza elargita in fiocchi morbidi larghi bianchi leggeri come piume che si avventano su ogni cosa e li coprono di nulla. E’ l’esperienza della terribile potenza del mondo data in forma apparentemente magica ingenua inoffensiva. Se non fosse per quel freddo che ogni fiocco porta con sé e che ricorda che stai dentro la vita e da quella anche ti devi difendere; da quello che la vita porta come minaccia oltre che, sempre, come opportunità e dono. A te spostare ciò che sta sui due piatti della bilancia in modo che essi siano in equilibrio. Su uno di quei piatti, nei giorni scorsi c’era tanta neve, e così, sull’altro, ho dovuto mettere calore. Quello necessario per sciogliere dentro di me la paura che sempre mi porto appresso. E quando quella si è sciolta ho visto la bufera di neve per ciò che era, togliendo di mezzo tutto quello che mi infastidiva: ho spento dentro di me l’audio acceso al massimo dell’autobus su cui percorrevamo l’altopiano; ho fatto fuori le decine di persone con cui viaggiavo tranne il mite bravissimo  autista Rocco, da vera killer professionista; ho lasciato Alvaro in ammirazione davanti a un nintendo ultima generazione di proprietà di un ragazzino tecnologicamente educato, e ho visto. Viaggiando a pochi chilometri all’ora, lungo una strada stretta e bianca, ho visto ciò che la prima volta avevo visto nelle pagine di Guerra e pace. Perché Tolstoj mi ha fatto vedere, lui per primo, la neve. Me l’ha descritta, me l’ha consegnata intatta, terribile e luminosa, legandola al destino di Natasha che in quelle pagine era giovane e innamorata del principe Andrej. E ancora cantava con la sua bellissima voce. In quelle pagine si spostava con i suoi fratelli sulla slitta, era sera e una torcia era accesa di fianco al cocchiere, e la luna brillava sulla vasta distesa di neve che poteva essere a quel punto anche quella della luna. E io in quelle ore, anni fa, ero immersa in quello spazio: in una incommensurabile bellezza che è ancora lì. Intatta, nel libro. Ecco come è stato che ho incontrato, in un pullman dell’italviaggi dentro una cavaiola che solo una sintonizzazione radio casuale può determinare, il conte Lev Tolstoj in persona, sì lo scrittore. Si è seduto a fianco a me e con me ha guardato turbinare la neve sull’altopiano di Serrisi, e in quel momento mi sono ancorata, daccapo, al suo grande romanzo.  Ho agganciato il moschettone alla corda e mi sono arrampicata, daccapo, su quelle notti in bianco mentre leggevo il libro e risalivo controcorrente le pagine e mi facevo spazio largo fra le vite di quelle persone che ho imparato a conoscere, qualcuna ad amare, qualche anno fa e ancora daccapo, ieri. Ho riconosciuto la neve che Tolstoj mi ha descritto. Essa veniva dal cielo e veniva dal libro, da anni indietro. E ancora verso di me cade. Adesso pure, che attraverso la scrittura la prendo fra le mani e so che il mio calore la scioglie. La trasforma, ancora daccapo, in una pagina scritta. Un faggeto di lettere immerso nella neve della pagina dove ti sei avventurato. Troverò le tue orme domani. E saprò di essermi incontrata proprio qui e proprio con te. Al limitare del mio mondo. Al confine fra quegli anni e il presente. Sulla soglia fra il libro della nostra vita e quello che un'amica mi invitò a comprare. E tutto sta insieme se decidiamo di farne un pupazzo: una carota, un cappello, un nastro di fortuna e una tasca di neve dove mettere una penna, e un libro. Lo chiudo in una bella busta di plastica dove sta disegnato un pino e  un indirizzo di Camigliatello;  servirà a custodire il libro in modo che non si bagni. Così se passi dalla foresteria della Madonna Pellegrina a Serrisi quest'estate, aprila quella busta che al disgelo sarà finita a terra. Dentro c'è uno dei libri più belli una delle storie più grandi che ho mai letto a letto. Nelle mie notti bianche.







































notti in bianco
dittico, 2010
56 x 38 ciascuna tavola

venerdì 17 febbraio 2012

la stessa gomma di dio


Esiste una gomma, è la mia, che quando la poggio sul foglio tira giù tutti i miei errori, tutti gli sbagli, tutti, tutti. Dal più recente al più vecchio; il primo, quello che feci all’età di sei anni, in prima elementare, il primo ottobre del 1966. La maestra, era una suora assai simpatica, lo prese a male, per me era solo una stanghetta che non si reggeva dritta, e me la fece subito cancellare. Da allora ne ho cancellati di errori, milioni. Anche quelli che non si potevano cancellare ho cercato di coprire di nascondere di eludere. Una massiccia operazione di esclusione. La più grande operazione bellica in cui mi sono trovata coinvolta. Giocando mai in attacco ma, sempre e solo, in difesa. Crescendo, gli errori infatti si sono spostati, dal foglio al corpo, e da quello alle relazioni ai legami, e da quelli al mondo, ecco perché nonostante grande com’è sono riuscita a sporcarlo di mio. Non ho dato peso, così come mi fu insegnato il primo ottobre del 1966: tanto c’è la gomma.
Ma io da un po’, un annetto circa, quella vecchia gomma non ce l’ho più. Inavvertitamente l’ho cancellata, forse. Da allora sono in affanno, letteralmente e fisicamente. Gli errori mi stanno tornando indietro. Lo strumento con cui ho creduto di aggiustare tutto mi sta recapitando tutto il triste approccio quotidiano. Non oso più impugnarla nemmeno perché chissà cosa mi mostra di tre anni venti giorni e tre ore fa: certo una disattenzione che pagò qualcun altro al posto mio. Questa gomma mi terrorizza adesso. Il problema è che non posso nemmeno buttarla dalla finestra, o nello scarico del gabinetto, ci ho provato, torna indietro arricchita di quel gesto di rifiuto, quel gesto maldestro che esce a fiotti sporcandomi le mani con un inchiostro che il sapone fa fatica a togliere. E’ una gomma maledetta, come maledetta è la mia vita. Io mi vivo così adesso. Soffocata da una pena così grande che non riesco a nominarla più. Troppo dolore, troppo ho visto. Troppo troppo troppo. Fuori casa, e dentro, e in me. E la bellezza dov’è. Anche il cielo è grigio stamattina. Penso ora alla felicità che ho provato l’ultima volta: il mio corpo sul tapis roulant la radio che diceva cose intelligenti e le immagini che mi scorrevano dentro cadendo dall’alto. I bigliettini che ho appuntato, li ho presi direttamente dalle mani di dio. Lui non cancella mai niente, per questo è felice, per questo il mondo è andato avanti. Gli errori siamo noi e ci ha lasciato. Ci ha fatto scoprire la gomma per farci disperare. Provare com’è la perfezione e non raggiungerla mai. O solo qualche volta e quella volta chiamarla felicità. E se fosse questo l’errore? Se invece la felicità fosse starsene su questa zolla sporca e sbagliata a vivere pienamente, con un bel respiro, questa pioggia grigia che mi unisce alla nuvola alla terra agli altri, tutti, e pure a Napoleone Bonaparte. Che l’acqua, quella, è da sempre la stessa acqua.


26 novembre 2011




geografia e storia, 2005
è in vendita
103 x 73

mercoledì 15 febbraio 2012

preghiera

mio dio dammi la capacità di credere che i miei limiti siano semplicemente il punto di inizio del mio cammino terrestre;
dammi l'umiltà di chiedere aiuto a chi mi mostra la sollecitudine l'affetto la tenerezza la bontà nello sguardo che tutto rende lieve; aiuto a chi ha la capacità di guardare le cose da un pò più di distanza di come vedo io;
dammi l'onestà la limpidezza, il coraggio di rispettare le scelte degli altri anche quando danneggiano le mie, perchè certo non con l'inganno cambiamo verso il bene il corso della Storia;
e infine dammi la forza della mia debolezza.
E dopo che mi ha fatto nascere a me stessa, mio dio,
aiutami a crescere.
Come fai crescere i fiori nei campi più irraggiungibili, più remoti, più inviolati.
e così sia



lunedì 13 febbraio 2012

Ho il cuore a pezzi

Vorrei riuscire a raccogliere tutti pezzi
ma già il vento ha cominciato a portali via:
a seminarli in un campo lontano.
Vorrei riuscire,
almeno
a mettere insieme
quelli che stanno sul tavolo
per terra
quelli che
gentilmente, mi hai raccolto tu da terra
ieri.
Ma sono troppo piccoli
e sono tantissimi
e poi io manco di pazienza
e ora, senza il mio cuore,
manco di amore:
non deve stare però lì l’amore
o non solo.
Perché è l’amore mi spinge
a farmi scudo con me stessa
con il mio corpo
di un dolore che,
altrimenti,
distruggerebbe tutto e tutti
e invece
una protezione,
tutta quella che riesco a esercitare e anche quella che non riesco,
con la mia anima chiamata pienamente a raccolta
perché il dolore non annienti
ma mi mostri me.
No, certo non più intatta,
ma capace di stare davanti a questo tavolo di briciole
senza alzarmi
senza sbuffare
senza pensare che la soluzione sia andarmene
e lasciare tutto lì.
Non sarà più lo stesso cuore di prima,
- un pezzo lo troverò fra qualche anno come petalo nella corolla di un fiore
un altro su un davanzale di una città lontana
un altro nella tasca del cappotto di mia figlia
un altro lo cercherò per sempre senza esito, lo so
un altro mi arriverà per posta
e saprò che ci sta dall’odore che porterà con sé -
perché quando li troverò non andranno più al posto loro.
E poi arriveranno pezzi di cuore di altri
e saranno così piccoli che non potrò più riconoscerli
e comincerò a mettere insieme il mio e il tuo e il suo
e quello di una amica di te
e questo puzzle non finirà più.
Ma ogni pezzo, ogni volta, mi porterà vicina a una verità
da cui in questi anni sono stata lontana.
Così, rotto,
funziona meglio di prima.

13 febbraio 2012





venerdì 10 febbraio 2012




































E’ buio quaggiù, accidenti. Cerco in tasca un pacchetto di fiammiferi, ma io non fumo: come potrei mai averceli? Una pila allora. Ma se mi dimentico pure dove metto quella che tengo a casa per quando se ne va la luce, beh, potrei averla messa nella tasca del mio vestito, sono da sempre sovrappensiero. No, niente. Niente luce oggi. Buio pesto. Non riesco nemmeno a leggere il biglietto che ho trovato mentre cercavo i fiammiferi, la pila. Chissà che c’è scritto. Forse, a Pino. Mio fratello. Che questo quadro l’ho fatto proprio nelle settimane successive al sua morte, uno strappo violento irredimibile, il 28 marzo, due anni fa. Una disgrazia annunciata da così tanti anni che uno pensa che sta soltanto portando male a sé e agli altri. E invece. Invece dovremmo sempre dare ascolto a ciò che senza programmazione ci parla dalle profondità di noi stessi. Quelle sono parole che vengono su come bolle d’aria dall’unico luogo che l’aria ce la fornisce davvero: l’anima, quando siamo disposti ad ascoltarla. Ascoltarla, e però anche, dare a lei spazio. Attenzione, prendendo in seria considerazione, ponderando con la necessaria gravità, ma anche velocità e spontaneità e flessibilità, quella luce piena quel soffio vitale e leggerissimo che essa ci porta come un messaggio. Come ambasciatore di qualcosa di più grande: noi stessi. Io, per me. Io come suggeritrice di cose che mi riguardano e che solo io conosco, onestamente davvero sinceramente per come esse sono e sono state, e come andate.

Anche le immagini, provengono da laggiù,o da lassù. Anche loro ambasciano un messaggio. In questo perimetro oscuro, di notte senza più giorno perché ciò che ho perduto per sempre se n’è andato, io cerco Pino. Dove sei? E stranamente quella domanda si accende. Come ogni parola, come ogni volta che usciamo allo scoperto e ci prendiamo la voce per dire una frase veramente necessaria. E che appartiene senza ambiguità: proprio a me. E’ necessario domandare al buio alla notte alla morte, a Pino che non mi rispondere: dove sei?
Ho come la sensazione, me lo dice quel rigurgito d’aria e luce da laggiù, che sei dove sono io. Dove sono?
Nel buio. Ma non urlo, parlo.
Parlo a chi mi è caro a chi sono cara io. Questo basta a non farmi sentire sola. A sentire il buio come uno spazio abitato in tanti.









martedì 7 febbraio 2012

E' (in) UN LIBRO

David Copperfield, per me:



E’ un cassetto, uno di quelli che aprivo, di nascosto, assai furtivamente, dalla alta e stretta cassettiera che mia madre teneva in camera da letto. Aprivo quei cassetti per perdermi fra i pizzi delle sue sottane, fra gli odori delle saponette, per aprire quel libro, meraviglioso, indimenticabile chissà chi lo possiede adesso, dalla copertina di madreperla, tante tessere quadrate lavorate una per una, che chiudevano quel libro di preghiere antichissimo, dove aveva pregato la mia bisnonna, Laura Contegiacomo; il dorso era dorato, d’un oro scuro e una fibbia di metallo in argento chiudeva quello scrigno prezioso di parole. Un baule di parole sacre, ma anche un baule di voci. Da lì a ben ascoltare si levavano ancora in bisbiglio, in monotona cantilena, le voci delle mie avi che qualche chicco di parola ancora, la mia voce stessa conserva. Come un grumo che non si scioglie perché ha fuori una corazza di pance di donne, tutte scomparse. Tranne, della linea della mia famiglia, io e Rosanna.


E’ uno spazio pieno di silenzio, nonostante le decine di personaggi che vivono la loro vita per anni e anni. Io ci entro e per prima cosa faccio un bel respiro. Inalo silenzio silenzio silenzio fin nella punta dei piedi. Mentre la storia si svolge, tumultuosa, sinuosa, ripida, e squarcia l’ascolto con una immagine che mi resta molti minuti fissata sulla retina. E’ uno spazio grandissimo, il più grande che io conosco e che ho mai conosciuto; eppure non mi ci sono persa mai, nemmeno una volta, forse una invece. In tantissimi anni dacchè lo abito, ne avevo sette la prima volta e ora cinquantuno fra poco. Una volta quando ho avuto paura a seguire quella storia. Non mi sono fidata, proprio alla fine me ne sono andata da una porta di servizio che quello spazio di perfetto silenzio, di medicamentoso silenzio, ha sempre a vista.


E’ una gonna anche. Di quelle che piacciono a me da quando ero proprio piccola. Di quelle grandi che quando giri su te stessa quella si apre come un fungo un paracadute: la corolla di un fiore che sboccia all’improvviso colorato e felice su uno stelo di gambe che per sostenere il movimento, l’erranza alla ricerca del cibo, devono essere due. Che una gamba ce l’ha chi aspetta il cibo stando fermo: il fiore, l’albero. Tutto il resto ha trovato modo di camminare, compreso il sole. E’ una gonna che si apre a ventaglio ogni sera, per ospitare il mio sguardo, per dare un senso e un compito ma anche una carezza, alle mie mani. Carezza, da quel corpo che ha un odore tutto suo.


E’ un odore: di fieno di paglia di stanza chiusa. Un odore di giacca anche se dentro ci sono persone nude.


E’ un gradino. Non sono mai stata più uguale a prima, dopo. E’ che devo aver capito qualcosa che mi ha cambiato le cose che avevo capito prima. Questa volta che non posso tornare indietro. Che quello che non ho fatto è andato perduto, sta nella città di ciò che abbiamo perduto, una metropoli immensa che se ci vai da visitatore stai sicuro che non torni più perché ti perdi nelle strade del rimpianto che sono tutte cieche. Questa volta che, se nutro in me la certezza che mi è rimasto poco tempo, perdo pure quello.

E’ una bandiera allora, anche. Da issare alta alta sul punto più alto di me, è l'indice di una mano levata al cielo, mentre mi sforzo di non cadere che me sto sulle punte.
La pianto adesso al centro del mio cuore insieme a tutte le altre, sono decine, che in tutti questi anni ho portato indietro da tutti i territori del silenzio in cui sono andata. Con la pazienza di una formica con la passione di una innamorata con la sorpresa di chi guarda dallo stesso angolo da cui ha guardato un altro centosessantuno anni fa.


E’ la storia di una amicizia alla fine. Con qualcuno che te ne fa dono. Manco mi sa, manco mi conosce, mai mi saprà, mi conoscerà. Dici?
Quello si sbilancia tantissimo verso di me di te di noi, si fa vedere in controluce o in pieno sole o sotto la pioggia o nell’abbandono del desiderio, si mostra indossando un vestito preso in prestito ma sotto c’è il suo corpo. Trasfigurato completamente metamorfizzato. Perché lo fai? Io dico per raccogliere tutta quella pena tutto quel desiderio e quella paura e quegli abissi e farli diventare farfalle.


E’ una voliera.
Un giardino di farfalle. Adesso ce ne sono in giro per casa 1022. Compreso l’indice dei capitoli e le due prefazioni.
Una te la mando per l’anno che verrà. Lasciala volteggiare



oggi Radiorai3 dedica tutta la sua programmazione a Charles Dickens, anche Google mi sembra avere una atmosfera tanto dickensiana oggi. Forse non è un caso. Forse oggi è un qualche anniversario. Certo un anniversario è ogni volta che noi leggiamo un libro e lo amiamo, e stabiliamo con l'autore legami di serellanza di maternità di cura. Che è sempre, una cura reciproca. Il libro esiste se lo leggi. Io esisto quando mi trovo scritta. Da qualche parte, mi ritrovo. E se mi ritrovo, e più volte e in più personaggi nelle pagine di David Copperfield, il libro è un mondo. E quel mondo mi contiene. Io, anche lì, e ora lo so, esisto.


















questo cosa ho appuntato sul libro di Dickens dopo averlo finito:
per molti mesi ci siamo incontrati qui, e ora dove ci incontreremo? 
La risposta è stata questa:


la risposta è stata: nel mio biglietto di Natale. Mandato agli amici, alle persone che in questi anni con i loro segni mi hanno dato qualcosa che è stato importante ricevere: considerazione.
Dickens l'ho, con le forti funi della memoria ancorato alla mia eistenza, di ieri e di oggi. E gli amici in questi giorni ne hanno aggiunta un'altra di fune. Che tiene me, Dickens e loro stessi. Anche loro adesso sono qui. In questo spazio di scrittura che tutto unisce con questi delicati ponti di inchiostro simpatico: perchè si vede, appare solo qui.
ciao. buona giornata.
teresa

sabato 4 febbraio 2012

l'eredità























Mio padre da piccoli ci portava a vedere le navi al porto.
Andavamo io e mio fratello Pino con lui e suo fratello Giandonato. Ci portavano sulle banchine e ci facevano correre lì vicino.
Erano quelle domeniche di soli mattini. Quelle domeniche non hanno mai avuto pomeriggi, né sere. Bastavano a riempirle quelle passeggiate lungo il mare. A guardar navi. E gabbiani. Papà mi sollevava in braccio, lui era grandissimo e sempre caldo, quando io volevo vedere le cose da più vicino: da dove le guardava lui. Vedere più vicine quelle bandiere che scendevano dai pennoni delle navi fino in coperta. Tutti quei colori nel vento mettevano i colori al vento. Che da quel tempo da quegli anni ho imparato ad amare. Di che colore è il vento, ti interroga una massima zen? Tutti, rispondo.
Papà mi portava in riva al mare al porto, mi addestrava allo spazio al tempo, alla grandezza del mondo alla bellezza alla maestosità all’ingegno degli uomini. Quelle grandi navi parlavano insegnavano con la loro solo presenza lì, dell’ intelligenza, educavano me piccola all’ammirazione delle opere. E anche la fantasia e l’immaginazione erano messe in movimento da quelle passeggiate la domenica. Da dove arrivavano quelle navi? Quanto lungo e avventuroso il viaggio che avevano appena compiuto? Chi ci era salito sopra e chi ci sarebbe salito ancora, e perché, per andare dove, per fare cosa, per vedere chi? Anche le ragioni che spingono gli uomini all’azione sono rotte, direzioni dentro di loro. Direzioni invisibili che come meridiani sezionano la loro anima in zone, la ripartiscono, la rendono più leggibile. Le rotte delle navi incontrano le rotte degli uomini in alcuni punti, e lì si sovrappongono e coincidono. E lì in quella sorprendente miracolosa sovrapposizione di linee si manifesta la Storia e le sue ragioni: perché si fabbricano le navi, perché gli uomini viaggiano, perché i padri portano i figli a vedere navi. E perché queste tre ragioni si assomigliano. Uno spinge i propri semi spinge la propria storia spinge il proprio desiderio e contemporaneamente da quelli sei spinto: da ciò che sei. Il bisogno di evolvere di staccarsi dai luoghi di trovarne altri in cui scoprire di essere ancora e sempre capaci di fare è la radice che tutti abbiamo comune e che ci consente di comprendere la vita degli altri.
Mio padre mi portava in riva la mare di fianco alle navi per educarmi al giorno in cui io, lui, saremmo partiti.
Sulle navi a un certo punto si sale e si scende altrove.
Ritrovarci un giorno, non so. Ma ritrovarci invece ogni giorno ogni istante nella passione nell’entusiasmo nell’ammirazione nella bellezza nella lotta per mettere ali agli indizi di amore e di partecipazione in noi è l’eredità di un padre al figlio. Questa eredità che bisogna sperperare per ritrovare il padre in noi e noi a nostra volta metterlo nel figlio. Credere alla vita e non averne paura è l’insegnamento.

Festa del Papà 2001


ieri, il 3 di febbraio, è stato un mese che mio padre si è staccato dall'orbita terrestre per proseguire il suo viaggio. E' stato un uomo indifeso che ha creduto di proteggersi voltando le spalle alla sofferenza. Quella, come per tutti noi, ha aspettato pazientemente di incontrarlo. E lui le ha parlato. E parlando a lei, ha ritrovato se stesso. E io, lui.
ciao papà


venerdì 3 febbraio 2012

LEGoGERE
penso che leggere sia sciogliere più che legare. Sciogliere l'emozione contenuta in una pagina sciogliere le ragioni che portarono lo scrittore a scrivere il suo libro. Sciogliere le sue parole nelle tue: sostanze reciprocamente solubili. Ogni volta che si legge un nuovo composto, una nuova sostanza si crea.
Una nuova relazione. Affettiva cognitiva sapienziale. Umana.
Lo scrittore scrivendo si lega.
Il lettore leggendo, lo slega.
Primavera del 2001



LEGoGERE
82 x 70
2001

era il 2001 e io mi scioglievo nella vita di Florentino Ariza.
E lui si prese, in quelle pagine, allora e oggi, cura di me.


giovedì 2 febbraio 2012

Una notizia falsa

Dice il giornalista alla radio che sei morta.
Ma il tuo libro
quello bello che raccoglie tutte le tue poesie
è sopra le mie gambe.
E io lo tengo con me
tutti i giorni:
sta appoggiato sul mio comodino
a fianco al letto
per consolarmi dei grandi dolori
ti leggo.
Le tue parole hanno una forza
che nessuna altra parola possiede:
tiene, con dita, delicate come petali di anemone,
la verità.
E quella non scappa
ma resta.
Resta nelle pagine del mio libro
che puoi trovare anche tu
in qualunque libreria di una città.
La verità,
questa prova difficile e dolorosa
ma anche felice e libera;
condizione ultima del pensiero
che trovi quando smetti di cercare
nella tasca della giacca
in quella vecchia la trovi,
che sta ferma come sta ferma la piramide laggiù
mentre ti sorride eppure ti fa male
e pure ti lascia muto.
Colpevole, eppure liberato
in questo libro qui,
un semplice libro di poesie.
Guardiamoci le spalle da ciò che è semplice.
E non credere a quella notizia:
è morta la Szymborska,
essa sta sulle mie ginocchia
e se apro il libro
a qualunque pagina, parla.
Ha una voce inconfondibile
che raccoglie le galassie disperse
in colonne ordinate
strette e lunghe.
Ha costruito scale
per uscirsene dal sistema solare
e le ha lasciate,
piegate,
ordinate numericamente,
per terra, a fianco al letto.

mercoledì 1 febbraio 2012

zoom






Nello schermo bianco, piccolo del mio cellulare, un'amica che so donna coraggiosa, mi scrive una domanda che sta ferma pur galleggiando sul punto interrogativo che la chiude.
Come si fa ad essere felici?
Non ci provo neanche a rispondere. Io non ho i titoli.
Per non cadere nel vuoto suscitato da questa domanda così enorme in questo schermo così piccolo, io cerco appigli durante la caduta.
Come quella storia zen di quello che sta aggrappato nel baratro e vede una fragola là dove tiene le mani, su quello spuntone, e se la mangia. Allo stesso modo, io, stamattina.
Mi viene da dire: affrontando la difficoltà, non voltandole le spalle.
Affrontandola anche se hai paura di non poterlo fare perché tutto il tuo corpo ti dice che stai male. E allora l’affronto con il corpo che sta male.
Mi viene da dire: continuando a guardare il cielo dove ci sono delle nuvole così belle che cambiano colore soprattutto in alcune ore di trasloco, quelle da un giorno all’altro.
Stando con la testa nell’oggi. A questo tempo qui, in cui chiedo a me stessa di mettere solo un passo in avanti senza cadere. Mettendo i piedi dove sta la mia pista. Senza chiedermi quanto quella pista è solida quanto è larga, quanto riesce a reggermi. Tutto il catalogo dei se lo lascio nella tasca dei pantaloni di mia madre. Quelli che portava quando aveva quarant’anni e usciva di casa, felice, perché doveva andare a scuola a insegnare. Era una scuola media del centro della città di Bari, la Ferri, e mia madre era orgogliosa di quella occasione personale. Che non era solo professionale ma anche sociale e di piccola distrazione. Andando da casa, al lavoro, noi a Bari abbiamo abitato in una cintura periferica, si vedeva i negozi e si distraeva un po’ da quelli che già erano i grandi spettri della sua e della nostra vita familiare. Chissà perché poi cambiò scuola, era il 1970, lei aveva quarantasei anni, era giovane e bellissima, e solissima dentro, e si avvicinò a casa. Era una scuola tanto vicina a casa, cinquecento passi, e lei cominciò piano a morire dentro e a non opporre più ai tanti problemi della sua vita un piccolo bisogno che era tutto suo, che solo a lei apparteva, a nessun altro. E mise, consegnò la sua vita, tutta intera alla famiglia a cui lei non apparteneva se non nel legame, terribile, di una sconfitta.
Forse questo dobbiamo accertarci di fare. Di riservare uno spazio a noi soli. Qualcosa che ha a che fare con la libertà la dignità il desiderio. Per quanto frivolo, civettuolo, improduttivo esso sia. E’ il giudizio, è la morale, è qualcuno che ci portiamo dietro a inquinarci con le sue sentenze ciò che facciamo diciamo viviamo, a toglierci la felicità. Io, ma solo e proprio io, che penso che voglio; chi sono? Senza preoccuparci di rispondere nemmeno alla domanda: perché. A volte le cose le dobbiamo prima vivere per poi saper dire perché.

27 gennaio 2012


Equilibrista sul filo di parole
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