Non so chiamarti. I titoli mi vengono sempre alla fine delle cose dei processi delle storie che racconto, per immagini o per testo. Che racconto ai bambini durante un processo di educazione e autoeducazione alla bellezza e allo stupore che dura anche un intero anno scolastico. E così non so dare il titolo a questo che oggi, stamane, è solo un bisogno. Rendere pubbliche le mie tracce di questi anni. Il sito che avevo messo su e pubblicato nel 2002, opere di carta, non è mai stato abitato. Non conoscevo il linguaggio che mi consentiva di entrarci quando potevo volevo sapevo, necessitavo. Così quella casa, nata già con le tubature sgocciolanti, ha continuato a perdere acqua senza che io riuscissi a fare nulla per lei. Troppo complicato. E’ rimasta così in tutti questi anni. Una casa con le porte e le finestre aperte ma in realtà disabitata. Me ne rammarico fino a un certo punto. Forse cercavo quello che alla fine solo in questi mesi ho trovato. Uno spazio in cui abitare in questa dimensione immateriale e affascinante del web. Ma anche complicata pericolosa superficiale. Una superficie che porta all’estremo i nostri tic le nostre nevrosi le parti infantili di noi ma anche quelle serie. E’ serio infatti per me adesso il bisogno di condividere il patrimonio di pensieri e di passi compiuti in questi anni, quasi dieci ormai. Mi sembra di abitare in un luogo deserto. Quello che lancio di qua sono aerei di carta. Forse così posso chiamare il mio blog. E disegnare, o provare a farlo, traiettorie in cielo che vanno verso Nord, l’arte. Verso Sud, la scrittura. Verso Est, la famiglia e gli affetti e verso Ovest, i conseguimenti, gli obiettivi, le storie e le scoperte del mio fare e del nostro: perchè sono diversi anni ormai che immagino storie che riguardano e che si fanno, e che realizzo insieme ad altri con cui condivido una passione, due: l’amore per la bellezza la passione per la letteratura.
Al centro di questa rosa dei venti, di questo aeroporto virtuale, ci sono io e questo gesto nudo semplice vitale. Spostare di pochi centimetri e staccare da me separandomene, ciò che mi è accaduto di fare di pensare di vivere.Saranno pure tre centimetri più in là ma la tua mano che raccoglie quell’aereo caduto può decidersi di lanciarlo ancora una volta. Ne perderò allora le tracce fisiche ma non quelle per cui quell’aereo ho deciso di lanciarlo da qui. Per affidargli altri padri madri sorelle amici. Io da sola non posso dare a ciò che faccio la ragione per cui lo faccio. Sospendere incantare sciogliere il tempo e trasferirlo altrove. Su un foglio di carta tenuto forte con le loro mascelle da queste formiche che sono le parole; da questi segni di matita che sono l’eco delle mie scarpe.

domenica 29 gennaio 2012

grafite


Ci sono matite con cui qualcuno è arrivato sulla luna, le matite degli scienziati degli ingegneri dei fisici. Sono matite straordinarie perché con quelle è stata scritta una nuova storia dell’uomo. Poi ci sono quelle dei musicisti la matita con cui Beethoven compose tutte le sue sonate una matita che appena la prendevi in mano al posto dell’inchiostro lasciava cadere note: seminime crome e biscrome. Poi la matita degli scrittori una matita con le corde o con i sonagli e poi e poi la matita dei teologi quella con l’ombrello e la nuvola sopra perché dio appena può si manifesta e tu devi essere pronto. Poi c’è quella che ti porta a volare alto la matita dei sognatori quella che ti istiga a superare le soglie e i confini e in questo modo infrangere le regole e la pazienza degli altri e poi quella dei cuochi che afferrano nelle loro ricette gli ingredienti indispensabili tranne uno, quell’atmosfera assai rara che a tavola fa solo una persona sorridente. Taccio invece sulla matita scatola perché essa porta il suo segreto, il suo cuore che batte nell’oscurità, fino a quando la mano di colei o di colui che senza saperlo la sta già cercando finalmente la impugnerà. Poi c’è la matita del poeta che solo lui può prendere in mano perché le spine di una rosa nulla possono contro le sue mani perché egli solo fra tutti scrive con il vento sulla sabbia. E’ l’unica scrittura fra queste che non pretende di restare e dunque resta e sta. Come quella che fu di Etty come quella che fu di Emily come quella che fu di Cristina. A queste donne che furono grandi senza pretenderlo invio con la posta del pensiero questa collezione di matite. E a Sergio anche che mi invitò a vedere ciò che stava sul mio tavolo. Piccole storie di grafite.

Teresa Ciulli, 19 aprile 2006







E' in vendita
30X40 chiuso
75x40 aperto
2006


Una pennarosa

Immagino la penna di uno scrittore come una rosa. Lui la impugna incurante del dolore incurante delle spine incurante della follia che il gesto da solo già testimonia. Sa che quella sofferenza che non è della carne ma dell’anima è la moneta con cui si scambia l’immagine dormiente; la bella addormentata nel bosco. Il non nato il non ancora esistente riesce a essere strappato via dal suo sonno millenario solo dal profumo di una rosa. Se non impugnassi questa prodigiosa misteriosa difficile penna nulla potrebbe venir via da lì. Le parole come le immagini come gli accordi di una musica che un orecchio solo ascolta, prima di tutti gli altri, seguono una voce che si perde nel momento in cui accade. Come la neve che poggia il suo piede per terra come il battito dell’ala prima che la farfalla plani sulla corolla come l’odore della mia penna che io sola riesco ad avvertire e sempre indirettamente: come traccia rimasta, negli abiti di fortuna con cui sono giunte le mie immagini, a trovarmi: queste mie amiche spettinate.


6 aprile 2006


venerdì 27 gennaio 2012

nuvolario











Oggi, finalmente, ho sceso giù, ho liberato, la mia Collezione di Nuvole. Collezione di nuvole autunno/inverno 2010. Si erano andate a sollevare come vapori di carta dal grande tavolo quadrato dove mi capita, sempre più imprevedibilmente, di lavorare. Si sono sollevati vapori di trucioli di matita, vapori di tessuto leggero dove imparai a stampare anni fa i miei testi, quando facevo grandi sperimentazioni, soprattutto assai pericolose per i corti circuiti che averi potuto generare, e non certo mentali ma proprio elettrici. Si sono sollevati vapori di ritagli di carta, chissà che tagliavo in quel mentre, forse le pagine manufatte del libro sui diritti dell’infanzia. Si sono sollevati nastri e si sono andati a condensare laggiù, cioè, lassù, sopra i due coni di luce che stanno come sentinelle alla frontiera del buio. Due vulcani dalla bocca rovesciata. Sono eleganti le mie nuvole anche se una è fatta di fil di ferro, di vario tipo. E’ una nuvola di pioggia acida. Dalle altre invece cade giù matita colorata, cade giù carta, cade giù tessuto di organza, cadono giù, lettere del’alfabeto. Cade giù colore: fucsia arancio rosso rosa; verde marcio. Forse per questo che si sono sollevate, per riprendere, in un giorno di temporale il loro ciclo di vita. Riprendere il loro cammino circolare dalla terra al cielo e una volta lì, di nuovo alla terra. Un cammino che si è interrotto qualche anno fa. L’ultima mostra mia, quando è stata, mi sembra che è passato tanto tempo. Sì, dico, una mostra voluta da me e non una di quelle che mi sono trovata a fare perché me la hanno proposto gli altri. Una roba tutta mia insomma. Come questa collezione di nuvole. Che c’è da dire che sì, che conta l’eleganza di una nuvola, il suo vestito la sua forma il suo colore la sua misura, se è grande o piccola, certo conta eccome se conta, ma per me, ha contato pure il suo cordone ombelicale, il modo con cui l’ho tenuta issata, agganciata, con il suo peduncolo di tessuto o spago o fil di ferro, al cielo della mia doppia lampada. Devo pure dire che hanno proiettato la loro ombra su di me sul tavolo, sull’oceano di Debussy che è l’ultima grande opera di carta fatta in questo periodo. L’amico Matteo, che lo ha fotografato mentre costruivamo il video di Reflets dans l’eau, le ha tolte di mezzo arrotolandole fra loro. Non erano più nuvole da un bel po’, tre mesi. Forse se ne erano andate in un pensionato per nubi, un triste luogo senza più un cielo. Si erano perdute e io non me ne sono accorta. Per fare ordine devo cominciare da qui. Dall’ospizio delle nuvole. Sono loro, una per una. Sono andata a trovarle, no a prendermele. Le ho sciolte dal loro incantesimo di fili imbrogliati e le ho scese giù. Stanno adesso come misteriose concrezioni in attesa di me. La loro mamma. Io partorisco nuvole; come una qualunque ciminiera di una qualunque periferia industriale. Ma le mie si fermano prima: addirittura prima di arrivare a toccare il soffitto del mio studio. Spesso si fermano dentro di me, sul solaio della mia testa. Talvolta sono fortunate ed escono dalle orecchie dal naso dalla bocca dagli occhi: ma dalle mani di più. Ho fatto l’artista in questi vent’anni. Dal 1992 a ora. Da quando scrissi una lettera d’amore. Ora ho tante nuvole da classificare. Cominciando da queste qui. Per farne che, per farne cosa: una sfilata? No e basta con queste sfilate. Per farne una pioggia una pioggia che duri tre anni, saranno sufficienti. A ripulire di nuovo la terra. A restituirci il sole.




. la prima goccia.
Teresa, 13 maggio 2011, venerdì
















nuvolario
E' in vendita
58 x 76
2011

giovedì 19 gennaio 2012

il 5 marzo del 2010 scrivevo:

Scrivere sono i grandi pesci che mi stanno intorno che disegno io dentro di me, sono quelli  che mi fanno compagnia in questa profondità. Sono anche il mio legame con il mondo fuori con quello che non vedo ma che respiro. Chissà com’è il mondo fuori da qui. Scrivere mi aiuta a ricordarlo, a desiderarlo a sperarlo. Mi aiuta a resistere. Ecco che mentre scrivo e scrivendo penso, e pensando mi concentro nell’osservazione di ciò che mi sta davanti, il mare si dilegua contro la terra; o è lo scafo di una immensa nave? O è il sottogola della balena? O è ciò che si allarga, l’isola sotto il mare piena di rifiuti che si è formata al largo del nord Pacifico? O è il vero buio: l’assenza di parole fra noi.



















oggi: 19 gennaio 2012

scrivere, come tutto il resto della nostra vita, se non comunicato, se non condiviso, se non recapitato in quel momento a chi lo hai scritto, intossica, uccide. Scrivere, se resta un gesto autoreferenziale o se viene usato troppo a lungo solo per resistere, non serve più a nessuno, neppure a chi l'ha scritto. Perchè quel linguaggio diventa allora il fine della comunicazione stessa e non più quello che esso è, lo strumento di un processo di liberazione.
Oggi recapito a me stessa pubblicamente, questa azione di scrittura. Rendendola pubblica la apro a chi, come me, patisce qualcosa a cui cerca di dare una forma un nome e da oggi anche un indirizzo. Una strada per arrivare a casa. Per uscire da sott'acqua, togliersi il boccaglio e liberare la propria voce.

questo quadro, il boccaglio, è in vendita.
2010
76 x 58
























 


mercoledì 18 gennaio 2012















è in vendita:
l'arco di Emily
2009
74X50














una penna d’oca sporca d’inchiostro



Quanto può una penna
se essa è attaccata, dal filo secreto del bruco
nel chiuso della sua camera mortuaria,
al tuo cuore.

Lo sapeva bene
la penna di Emily
non era una bic, come la mia.

Ecco perché anche
la sua poesia
ha oltrepassato i muri invalicabili dei secoli:

ha trovato tutte le porte aperte
che comunicano un giorno con l’altro
un anno con l’altro
un secolo e poi l’altro

in avanti, e indietro
perché un poeta cambia la storia del mondo;
anche di quella già stata

la illumina con la sua struggente innocenza
con la sua pietà altissima
con il suo debole sussurro
che ci vogliono le orecchie di un pipistrello
per udire quelle parole innalzate e scritte a se stessa tanto tempo fa,

e bisogna essere ciechi sempre come quello, il pipistrello,
per poterle comprendere una volta per tutte
nel luogo oscuro dove avviene in noi
il contatto fra la nostre pelle stellare
e tutto il mondo che non avremo mai:
un abisso, un intero universo di incontri di sapienza di stupidità pure

la penna di Emily fu forse capace di varcare tutti i secoli
e tutte le orecchie possibili
una coincidenza irripetibile nella storia dell’umanità
forse perché essa fu la penna remigante di un’oca.

Era il 1836 in questa immagine
che amo di lei
lei già teneva la penna in mano
e scriveva, allo stesso modo che raccoglieva fiori
nel suo erbario:
cucendo i fogli l’uno all’altro: come se fossero un vestito.

Perchè una poesia coglie
dal giardino di dio
il fiore della verità.
Nelle sue mani,
nella punta di quella penna poggiata sul foglio
che, dopo, avrebbe appoggiato avanti agli altri
esso non sfiorì.

Mai seccò.
Quando alla sua morte
fu trovata la scatola di latta nascosta sotto il letto
all’apertura del coperchio
tutte le rose le viole i botton d’oro
che lei amò che lei vide portandola a varcare i cancelli delle galassie ultime
sbocciarono all’unisono.

Basta leggere una sola sua poesia
per ritrovarsi in quel prato illimitato.
Di bellezza.
Essa, la bellezza., è tale perché sa tenere insieme
con una mano sola,
quella con cui scrivo,
dolore e incivile passione
la stessa che provò l’oca
quando le tolsero la penna.

Essa si sentì viva
vide il cielo ebbe paura di morire
poi comprese di non comprendere;
era tuttavia rimasta viva
e ciò le bastò. Le avanzò.
Fece in tempo, con il suo stormo
che disegnò per tutto il tragitto
la punta di una freccia nel cielo
a migrare
il giorno successivo, per l’Africa.











 
 
 
 
 
 
 
 
 

sabato 14 gennaio 2012

non  








no, non è in vendita ma, puoi venire a leggerlo, tenerlo in mano, vederne il power point,
prenderne ispirazione, appunti, sfogliarlo, frugarlo qui, nel mio studio, quando vuoi, basta che mi telefoni prima,
il QUADERNO quasi SEGRETO
2011

























Naufragi di varia natura
di carta
di poesia
di un lavoro mancato
che poi sempre
è un incontro;
certo che ne sto mancando in questi anni:
di tutto di più.
Anche chi e cosa non avrei incontrato affatto mai:
se pure ci avessi lavorato con l’obiettivo che non ho mai avuto
Meglio!
Per lei, lui, esso.
Non ce l’avrei fatta lo stesso a incrociarti, vedi, non è scritto che qui:
modesto foglio, naufrago anch’esso.
Salvo il salvabile
ovvero l’inutile
perché lo salvo quando non serve più.
Anzi,
meglio sarebbe
lasciarlo completamente affondare
sotto l’abisso dell’abisso.
Due volte stupida.
Questo quaderno raccoglie
il meglio della mia stupidità.
E’ uno Stupidario:
il luogo meraviglioso,
il giardino in fiore
della mia scemenza.
Però, se tolgo la c,
quella parola diventa
semenza:
dai diamanti non nasce niente



novembre, 21, 2011, Lecce






















venerdì 13 gennaio 2012













in vendita
oggi sogno
2002
38x74



























































Proposta di lavoro

Mi chiamo Teresa Ciulli. Sono un’artista visiva. Ciononostante utilizzo la parola come parte dell’opera e come vera cornice che sta intorno ad ogni mia opera. Essa non è mai veramente di legno, ma solo fatta di parole. Quelle che uso per spiegare a me stessa, prima ancora che agli altri dove, quel fare intorno al tavolo stamattina, mi ha portato. Portato a scoprire di me; degli altri. Del mondo che ho vicino. Ho una formazione artistica, compiuta in un liceo, a Bari. E una universitaria in Filosofia, percorso di studi che ho sempre fatto a Bari e che è stato per me il punto di inizio della mia storia adulta. La mia tesi di laurea fu su Roland Barthes, un critico letterario; un uomo che ha incarnato la conoscenza nella sua vita intera; o forse il contrario, la sua vita personale nella conoscenza. Poi, nel tempo, altri stimoli altri incontri e un trasferimento a Lecce, dove vivo da oltre vent’anni, hanno contribuito a fare accadere, per caso e per necessità, questa mia singolare esperienza al limite di due saperi: quello letterario e quello grafico visivo. La mia vita le mie dita la mia persona, li tengono insieme con fortune alterne. Perché gli eventi che ci accadono e che noi con il nostro comportamento contribuiamo a fare accadere, creano ogni volta una terreno di coltura diverso a questo mio doppio esistere, narrativo e visivo, che si gioca sempre sulla stessa linea di confine: l’arte come strumento di comunicazione e di scambio con il mondo.
All’amore per la letteratura ho dedicato le mie prime mostre, Per Marco Polo, per Kublai Kan, per Italo Calvino e per me, e poi Segna/Libri e intorno a concetti filosofici ho sviluppato quelle successive tematizzando l’esperienza del tempo, l’idea della fragilità, l’esperienza della maternità, nonchè il mio bisogno di parole per stare al mondo. L’ultima mostra nel 2009, è durata un giorno solo: ho appeso, con l’aiuto di Valentina, i miei quadri dentro un giardino del seicento nel centro storico di Lecce. Quei quadri sospesi nell’agrumeto mi appaiono adesso rivelandomi il vero punto di forza del mio lavoro: la dimensione poetica. Cerco la poesia. E il dolore più grande nella vita e nelle relazioni che la nostra vita custodisce e porta e protegge e pure stimola, è tutto il tempo in cui non l’ho trovata. Perché essa è soprattutto dentro di me, non fuori. E se ho vissuto male, essa non può più manifestarsi. Si è nascosta. Si protegge da me stessa. E’ andata in vacanza, sperando che al suo ritorno io abbia fatto quelle modifiche necessarie perché lei possa ritrovarsi a casa. Ma ogni volta che torna è sempre peggio. Forse oggi, se dovesse tornare si troverebbe più a suo agio. Casa, casa interna dico, è tutta sottosopra, ci sono stati i ladri pochi giorni fa e hanno portato via qualcosa che ancora non riesco a individuare, è tutto sottosopra. Forse non hanno portato via niente, ma io non lo so perché è tutto, tutto in disordine. La poesia nel disordine ci sta bene. Respira, vive, ascolta ogni più piccolo rumore e lo fa diventare traccia di qualcosa che serve a ricominciare a mettere in ordine. La scrittura è il modo con cui noi mettiamo in ordine la nostra esperienza; come la pratica dell’arte. Esse ci servono a tradurre ciò che viviamo in una lingua comprensibile a noi stessi e quindi anche agli altri. E tradurre ci serve a capire e quindi a diventare più sapienti. Nella capacità di stare e di condividere con gli altri le grandi prove della vita: il dolore della morte la paura della malattia, le difficoltà materiali; ma anche di condividere le grandi gioie, l’amore: il sentimento di complicità di aiuto collaborazione sostegno e cura, il desiderio di crescere insieme a qualcun altro. Ecco perché ci serve avere un linguaggio, qualunque esso sia, e praticarlo. Perché esso ci serve a vivere tutto di questa nostra esistenza, anche le domande da fare a dio. Le domande cioè da fare a quella parte di noi che proviene da un mistero e a cui essa un giorno ritornerà.
Questo il mio ritratto oggi: mentre metto a posto una casa tutta sottosopra e mentre piano piano prendo in mano ogni singolo vecchio oggetto che mi sembra scampato da un naufragio e lo vedo con un occhio diverso. Quello dell’oggi. Del solo momento presente. E mi sembra bellissimo perché io riesco a vederlo come non l’avevo visto mai impaludato come stava nelle sue abitudini e nella sua pigrizia rispetto al tempo; e io, sopratutto ai suoi occhi, a quelli dell’oggetto, sono bellissima. Perché sono viva adesso.
Un oggetto che mi sta intorno in questi giorni come una presenza che emana solo presente, è un libro. A quello voglio fare riferimento per immaginare un Pon sulla lettura e scrittura creativa. E’ David Copperfield di Charles Dickens. L’ultimo bellissimo libro che ho letto. Apparteneva a un’era fa, quando la mia casa interiore era apparentemente in ordine. Ma esso, come è potere di tutte le cose che hanno una verità o più d’una, è un potente giacimento di illuminazioni di azioni creative; di possibili altri incipit. Come se un libro, e questo in particolare, che è bellissimo, contenesse dentro di sé infinite quantità di specchi. E tu puoi in quelli vedere passare i personaggi, vederli muoversi, sistemarsi prima di entrare in scena e puoi anche tu a tua volta specchiarti. Sovrapporre la tua immagine sulla loro, approfittando del passaggio di una frase, del dettaglio di un vestito o di un oggetto o addirittura, di una nuvola rimasta lì. Questo mi consentirebbe, lo stesso libro dico, anche di affrontare il percorso di 30 ore dedicato a Fabricalibro, una attività didattica finalizzata alla costruzione di libri fatti a mano. Ogni libro ne contiene altri. E io certo partirei dalla lettura ad alta voce del romanzo che potrei cominciare a leggere dall’inizio, per poi lasciare ai bambini alla fine del doppio percorso didattico, fra qualche mese, il desiderio di continuare a leggerlo ognuno per suo conto, fosse solo per sapere come va a finire, come cresce questo nostro amico. In aula il mio compito sarebbe quello di approdare per passaggi successivi, alla costruzione di qualcosa che sta nel libro da centosessantuno anni e ci resterà per altri secoli. Fino a quando ci sarà un lettore disposto a leggere. Ad ascoltare. Ascoltare infatti è un’azione attiva, mai passiva. Essa ci mette in moto e mette in moto altro. E noi di quello abbiamo bisogno per esistere. Nutrirci. Non solo di cibo anzi, forse il cibo è la cosa di cui qui, in Occidente abbiamo meno necessità, tranne in questi difficili tempi. Abbiamo bisogno di bellezza. Di giustizia. Di amore. Niente altro ci fa vivere. E molto si può trovare in un libro e molto nella relazione educativa e/o auto educativa che ciascuno fa scattare con quello e tramite quello, fra sè e gli altri. Perché, ecco, degli altri abbiamo bisogno. Per scambiare per donare per mischiarci alle loro vite formando un nuovo ibrido, una nuova realtà una nuova dimensione del tempo. Quella dimensione ha un nome solo, si chiama speranza. Ancora, ancora, ancora, ancora, posso imparare. Ancora, crescere. Ancora diventare la persona migliore, la bella persona, essere per me stessa un dono. Perché la forza d’animo, come la poesia, non sta mai fuori di noi. Piuttosto sta nascosta nel luogo più inaccessibile di tutti: davanti a te.



13 gennaio 2012, Lecce



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

giovedì 12 gennaio 2012















in vendita:
la mia spina dorsale di parole
2009
36 x 72

















































































Le mie vertebre



(........................)
A me, e solo di me voglio parlare, alla mia vita personale è mancato l’amore per me stessa. Quello che ti aiuta a tirare fuori ciò che sta sepolto, sotto un numero ormai infinito di giorni di calendario dacchè sono nata, il dono che dobbiamo compiere per compierci. Perché se anche quei giorni li riuscissi a contare facendo una moltiplicazione, essi comunque hanno al loro interno altre stanze altri corridoi, i sogni sognati la notte e i luoghi dove ci hanno portato e le persone a cui ci hanno portato. E l’adattamento a cui ci siamo, volontariamente, sottoposti. Per paura di vivere, per paura di morire, piuttosto. Di morire da soli. Ma questo ostacolo non può adesso continuare ad agire più; perché esso intossica ogni relazione la chiude alla parità al confronto frontale ai bisogni nel momento in cui essi si manifestano. Perché allora, in quel momento, devi dargli spazio. Ecco come faccio adesso a resistere ai giorni più difficili della mia vita, non ne so altri eppure ce ne sono stati altri nel tempo già vissuto. Quel tempo è blindato. Non ci si più entrare dentro. Per cambiarlo dico. Esso è stato. Oggi tocca rialzarsi da terra, e poggiarsi, io per me, sulla mia spina dorsale di parole. Esse sono la mia sola possibilità di tornare in piedi poggiando su me stessa; non più su un altro.
I miei figli, potranno così anche loro, poggiarsi su di me. E gli amici se e come e quando lo vorranno. Come io oggi, già, che grande dono per la mia vita, mi poggio sulla sorella sugli amici a me più cari al mondo; che hanno imparato prima di me, a stare al mondo sulla loro spiana dorsale. Ognuno ha la sua. E io oggi, la mia. Eccola. E’ fatta con ventuno lettere dell’alfabeto. Sai, sono le mie vertebre.


12 gennaio 2012

mercoledì 11 gennaio 2012














in vendita
la seminatrice di stelle
acrilico su cartoncino schoeller
2011
40 X 60














































































Mia madre è una seminatrice di stelle
il suo spazio di lavoro è l'universo intero.
Mamma, se ti penso al lavoro laggiù, o lassù, mi viene da piangere
sei così piccola rispetto a tutto il resto.
Una formica al tuo confronto è un gigante
eppure tu stai lì, serena,
davanti a tutto quell’eterno
e con calma fai l’impasto:
acqua farina lievito, sale no,
per costruire pagnotte di stelle
quelle che poi vedi lievitare
e avvolgersi in galassie in spirali in macchie in tunnel;
nell’impasto, ci metti sempre una nota
un segmento di musica
un filo dei tuoi capelli
il suono della tua risata
che arriva imprevedibile e fuori dalle convenzioni
ci metti le tue mani nodose e il tuo smalto rosso
sempre sbrecciato
i tuoi vestiti semplici, da bambina diventata vecchia
e in ultimo
sciogli un po’ del colore dei tuoi occhi
è un celeste pieno di vento.
Le stelle da qualche mese stanno venendo su con quel grumo inatteso che stravolge il loro dna.
Intenta nel tuo campo mamma,
chissà su quale quadrante remoto
Certo dio non si aspettava una pasticciona come te:
gli stai rovinando la sua ricetta base.
Ho letto una volta, ma dove?
Che sulla terra arrivano polveri dalle stelle.
Fra quelle, ormai, mi aspetto
nei secoli a venire
di ritrovare le orme della mia mamma:
camminando camminando
nei cortili nelle case negli angoli nelle derive
nelle scale negli ascensori negli aeroplani
nelle vasche da bagno nelle cantine
nei giardini nelle culle
sugli abiti
impigliato, il suono della tua voce.
Io, come il grande osservatorio di monte Palomar
sto in ascolto.

martedì 10 gennaio 2012























IN VENDITA


il breve respiro di un dio
1993
collage su carta di stracci fatta a mano
75X56

Questo quadro, il breve respiro di un dio, è come se fosse stato fatto su un pezzo di tessuto tanto la carta è lavorata con le mani, tanto si sente la sofferta preparazione che sta alle spalle di questo supporto. E’ un vestito, non un quadro. Tanto che si potrebbe pensare di appenderlo nell’armadio piuttosto che tenerlo appeso al muro. Si indossa si porta in giro, si dovrebbe portare insieme ai propri pensieri. E’ un’opera del 1993. Non c’è sulla carta nemmeno un segno del pennello, la carta serve a mantenere a fare accadere a contenere e delimitare. Essa è proprio una finestra e quella è disegnata in questo spazio, disegnata, cioè, scolpita, con alcuni materiali. La iuta che delimita uno spazio rettangolare, una finestra appunto, a sua volta ridisegnata da un filo rosso che sta infilato, da un ago certo, a tenere tutto: la carta la iuta e credo anche il foglio di carta velina dove sta disegnato come un vento appena accennato, graffi di respiri, fino a entrare dentro una bolla d’aria, il vapore pieno lasciato da dio su questo vetro che non esiste se non qui, sul mio tavolo di lavoro. Da nessuna altra parte al mondo dio ha lasciato l’impronta fossile del suo respiro se non, ma come gli è venuto, in quel giorno del 1993, chissà, forse di primavera, abitavo un’altra vita e niente di quello che poi è successo dopo era accaduto. In quella incoscienza piena, in quella stupidità del vivere accolgo quest’orma e le do spazio, poi, Ruggero ci metterà poco dopo una cornice, più bella del quadro. Ma non faccio in tempo a scriverne stamattina, che quel giorno quell’orma era stata già presa. Su quel foglio di carta apparve, man mano che l’alito di dio veniva meno sulla sua superficie, quello che aveva lasciato. Pezzi di rafia dolcemente allineati un sasso grosso, due tre più piccoli, e pezzi piccoli di carte decorate. A ogni respiro di dio chissà quanto e come viene lascito sulla terra e altrove. Anzi sulla terra quasi nulla. Eppure da quel quasi nulla moltissimo è gemmato fiorito impazzito dilagato. Complicato. A distanza di tanti anni da allora quel quadro, come molti altri mi chiede qualcosa che io non so dare a loro, la libertà.


Non li ho finiti mai allora questi quadri queste storie di carta queste pagine dove sta appuntato con febbrile imprecisione qualcosa che riguarda la mia esperienza della vita dell’amore dello stare sulla terra.

Per finirli serve che se ne vanno via di qui. Non possono da soli. Gli servono altre gambe che non sono le mie. Gli serve un'altra vita, non più la mia. Gli servono altre domande altre parole altri sguardi, altri accidenti. Il mio studio è in via Rossini a Castromediano, un quartiere di Lecce. Non ti propongo un quadro da appendere in casa, ma una intuizione che fu tua ma che poi hai perso nell’incalzare degli aventi che ti riguardarono. Io, per una serie di circostanze favorevoli e del tutto oscure, l’ho trovata e raccolta e conservata. Ma essa non può stare più con me. La devo congedare da qui e dalla mia persona. Perché possa raggiungere chi la sta aspettando e non lo sa. Perché possa la loro libertà, restituirmi la mia. Sì, cari amici, perché sono adesso io, la loro prigioniera. Prigioniera di cose così belle così delicate così tutte insieme, ingombranti. Soffocanti. Se lasciare tracce serve a localizzarsi a sapere dove si sta poi quella localizzazione deve servire ad andarsene da lì. Altrimenti uno soccombe sotto il cumulo di se stesso. Io non vorrei soccombere, ecco perché andrò alla posta a comprare i francobolli domani mattina. Per affrancarmi.

Il mio studio è aperto.

Teresa Ciulli
Via Rossini 59
Castromediano 73020 Lecce
0832 344519