Non so chiamarti. I titoli mi vengono sempre alla fine delle cose dei processi delle storie che racconto, per immagini o per testo. Che racconto ai bambini durante un processo di educazione e autoeducazione alla bellezza e allo stupore che dura anche un intero anno scolastico. E così non so dare il titolo a questo che oggi, stamane, è solo un bisogno. Rendere pubbliche le mie tracce di questi anni. Il sito che avevo messo su e pubblicato nel 2002, opere di carta, non è mai stato abitato. Non conoscevo il linguaggio che mi consentiva di entrarci quando potevo volevo sapevo, necessitavo. Così quella casa, nata già con le tubature sgocciolanti, ha continuato a perdere acqua senza che io riuscissi a fare nulla per lei. Troppo complicato. E’ rimasta così in tutti questi anni. Una casa con le porte e le finestre aperte ma in realtà disabitata. Me ne rammarico fino a un certo punto. Forse cercavo quello che alla fine solo in questi mesi ho trovato. Uno spazio in cui abitare in questa dimensione immateriale e affascinante del web. Ma anche complicata pericolosa superficiale. Una superficie che porta all’estremo i nostri tic le nostre nevrosi le parti infantili di noi ma anche quelle serie. E’ serio infatti per me adesso il bisogno di condividere il patrimonio di pensieri e di passi compiuti in questi anni, quasi dieci ormai. Mi sembra di abitare in un luogo deserto. Quello che lancio di qua sono aerei di carta. Forse così posso chiamare il mio blog. E disegnare, o provare a farlo, traiettorie in cielo che vanno verso Nord, l’arte. Verso Sud, la scrittura. Verso Est, la famiglia e gli affetti e verso Ovest, i conseguimenti, gli obiettivi, le storie e le scoperte del mio fare e del nostro: perchè sono diversi anni ormai che immagino storie che riguardano e che si fanno, e che realizzo insieme ad altri con cui condivido una passione, due: l’amore per la bellezza la passione per la letteratura.
Al centro di questa rosa dei venti, di questo aeroporto virtuale, ci sono io e questo gesto nudo semplice vitale. Spostare di pochi centimetri e staccare da me separandomene, ciò che mi è accaduto di fare di pensare di vivere.Saranno pure tre centimetri più in là ma la tua mano che raccoglie quell’aereo caduto può decidersi di lanciarlo ancora una volta. Ne perderò allora le tracce fisiche ma non quelle per cui quell’aereo ho deciso di lanciarlo da qui. Per affidargli altri padri madri sorelle amici. Io da sola non posso dare a ciò che faccio la ragione per cui lo faccio. Sospendere incantare sciogliere il tempo e trasferirlo altrove. Su un foglio di carta tenuto forte con le loro mascelle da queste formiche che sono le parole; da questi segni di matita che sono l’eco delle mie scarpe.

sabato 24 ottobre 2009

storia senza fine


Cara Anna alla fine ci hai lasciati.
Non ti sentirò parlare più, pensare, combattere. Hai preferito la vendetta alla tua stessa vita, l’offesa e la ferita di lui alla tua esistenza. Non hai accettato di aver perso, e vincere in quel modo certo è una sconfitta. Perché hai vinto sull’amore con il suo rifiuto. Ha vinto la tua mancanza di umiltà. Certo non saresti stata Anna Karenina e non avresti scritto la tua storia attraverso Tolstoj. Mi mancherai molto. Prima di andarti a mettere sotto la seconda carrozza di quel treno mi hai lanciato la tua borsetta rossa. Provo a riempirla delle storie dei pensieri che a te seguiranno. Te la consegnerò un giorno, quando nel cielo dei sentimenti e di ciò che ci sopravvive dopo la morte, ci incontreremo. Per prima cosa questo biglietto che ti appunto stamattina. Ho molte cose da fare adesso ma non volevo uscire senza averti prima salutato. E la scrittura anche a questo mi serve: a dire ciao. A trasformare la pena in un rigo orizzontale che se ne sta quieto sotto i miei occhi mentre tutto il resto, ed è infinito, oscilla e mi fa pena. Ma se fermo il mio sguardo qui ci sei tu Anna Karenina nella tua essenza finale. Una borsetta rossa che ha traversato un secolo, migliaia di case e afferrata presa, raccolta, da centinaia di persone. Fra queste, è certo una delle tue ultime prese più recenti, ieri sera, e con me chissà chi nel vasto mondo proprio ieri ha afferrato quella borsa, c’è la mia mano. Quella stessa che non esce stamattina senza averti sventolato un fazzoletto dove sopra sta disegnata la mappa della mia città. Stattene quieta un po’ con me adesso, cara Anna; riposati un po’, riprendi forze prima di cominciare a narrare daccapo a qualcun altro altrove, una storia senza fine.

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