Leggo da quando sono piccola. Leggere è stata la mia prima abilità. E la prima esperienza carica di magia che potevo compiere da sola.
Cos’è leggere, voi lo sapete.
E’ un gesto che manifesto ed esercito tutti i giorni: cinque minuti ormai, prima di andare a dormire.
All’inizio degli anni 90 ho scoperto un altro gesto capace di emozionarmi. Fu scrivendo una lettera d’amore. Quelle parole non volevano starsene ferme sul foglio, si muovevano, volevano mettersi in mostra farsi vedere meglio. Così le ho imbarcate, trasformate in bandiere, disseminate su una pista come briciole di pane.
Entrare dentro la pancia delle parole esplicitare le loro metafore saccheggiare tutta l’emotività che ci sta dentro era diventata la mia preoccupazione principale. Ho dedicato molte mostre a esplorare il confine fra la parola e la sua ombra fisica, tattile, tridimensionale. Mentre ero su quel confine, dall’altra parte ho incontrato gente. Dapprima venivano a trovarmi per chiacchierare un po’, poi per chiedermi di saltare il muretto e andarli a trovare a casa. C’erano famiglie da quella parte, bambini da quella parte, c’erano scuole, e volevano conoscermi. Ascoltare e magari giocare con me e imparare quando si può, a entrare nella pancia della parola. Dissi di sì la prima volta quasi dieci anni fa. Prima di quel salto pativo, ma anche cercavo, la solitudine. Ore e ore sequestrata da me stessa e aveva finito per non bastarmi più. Anche le telefonate mi davano fastidio. Cresceva in me una pianta, rapidamente, e toglieva spazio al resto, e al cielo anche. Non so chiamarla per nome. So come è fatta. Di tante ore da sola. E più ero sola più volevo essere sola. Il silenzio è lo spazio fisico che forse amo di più di ogni altro ed è quello che nei momenti di grazia ho consegnato all’opera, nell’opera. Forse non era la solitudine ma il silenzio che cercavo di difendere così tanto. Solo che quando ce n’è troppo, quando dilaga, lo smarrisci lo perdi nella solitudine e non ricordi più la sua qualità essenziale la sua necessità: che il silenzio è una condizione interiore prima di essere esteriore e che è tanto importante perché lì, nel silenzio, si manifesta e mantiene viva la domanda che ci nutre. E’ sempre la stessa. Chi sono, perché sono qui.
Il paradosso è che la domanda, quella domanda, nasce dall’incontro col mondo. Se io sto ferma e chiusa in bozzolo che domande più posso farmi? Ripeto me stessa come si ripete la melodia nel disco di vinile che si è scheggiato. Così sono andata, ho saltato il muretto della solitudine della mia condizione di artista e sono andata fuori dal mio spazio, perché avevo bisogno del mondo, cioè di innamorarmi. Di entrare in contatto con l’altro con ciò che non conosco e che non mi conosce. Per uscire fuori dalla mia orbita. Volevo cadere di nuovo, e farmi male. Perché in quell’ahia c’è che sei vivo e cerchi un equilibrio che non hai più se mai l’ho avuto. Così ho messo in fila in questi anni ultimi la mia collezione di ahia. Una collezione molto disordinata come si conviene a una raccolta così intima.
Sono caduta di proposito. Come quando ho fatto Cappuccetto, arrivandoci attraverso un libro di Munari, con sessanta bambini, nel 2004. E’ stato bellissimo ci siamo fatti male in tanti ma eravamo felici con i nostri ginocchi sbucciati. Poi quando ho cominciato a collaborare con Valentina e abbiamo avviato il Presidio. Sono tornata lettore, nel mio rango originario. Abbiamo prima fatto Compagine, otto incontri a rimurginare sui tic sulle ritualità sulle abitudini legate alla lettura e poi, come se si fosse aperta una diga, è seguito con il Presidio un flusso di attività che non si è più interrotto. C’è stato Verso il largo, poi Pagina 58 emozionantissima, i cui echi incontriamo ancora e mi fanno inciampare, cadere ma con un ahia di felicità. E tutte le attività collaterali che leghiamo a un progetto, come gli anelli di Giove che fanno bello il pianeta e ricco di qualcosa di unico. Fino a ieri, fino a Etty, alla giornata della memoria; attraversando di nuovo la strada per andare a lavorare nella scuola elementare su progetti che partono sempre dal libro e dall’amore per la parola. A quell’amore, tutto quello che faccio da sola e con gli altri, torno. Anche oggi qui a Fasano insieme a voi, qui torno. Facendomi male anche oggi, collezionando anche oggi il mio ahia che consegna e certifica a me stessa che sono viva in un compito ancora una volta nuovo. Raccontare a un pubblico di ragazze di ragazzi, e non da sola ma insieme a Claudio Luca e Valentina che ci faccio io qui, con loro e con voi. Lo vorrei sapere pure io, e proprio perché lo vorrei sapere ho accettato di venire. E’ che da molti anni a questa parte quello che vedo, che anticipo con la testa, che immagino, lo condivido e lo innaffio insieme agli altri. Sono pensieri che mi stupiscono proprio perché la loro scala di realizzazione non è più quella che si misura in metri sul mio tavolo da disegno nel mio studio, ma quella che si misura in chilometri su altri tavoli fuori dal mio studio; dentro una scala di realizzazione che include un gruppo di persone e da quelle, se e quando riusciamo, una società, gruppi, contesti. Adesso quando sbaglio mi faccio male davvero. La mia collezione di ahia si è arricchita di un dolore che prima non conoscevo. Valeva la pena? Valeva la pena diventare più consapevoli se più complessa, più tormentata, più impegnativa si è fatta la mia vita? Non rispondo ma con le parole predispongo il silenzio che come un paracadute fa atterrare dolcemente questa domanda: senza farsi male.
Cos’è leggere, voi lo sapete.
E’ un gesto che manifesto ed esercito tutti i giorni: cinque minuti ormai, prima di andare a dormire.
All’inizio degli anni 90 ho scoperto un altro gesto capace di emozionarmi. Fu scrivendo una lettera d’amore. Quelle parole non volevano starsene ferme sul foglio, si muovevano, volevano mettersi in mostra farsi vedere meglio. Così le ho imbarcate, trasformate in bandiere, disseminate su una pista come briciole di pane.
Entrare dentro la pancia delle parole esplicitare le loro metafore saccheggiare tutta l’emotività che ci sta dentro era diventata la mia preoccupazione principale. Ho dedicato molte mostre a esplorare il confine fra la parola e la sua ombra fisica, tattile, tridimensionale. Mentre ero su quel confine, dall’altra parte ho incontrato gente. Dapprima venivano a trovarmi per chiacchierare un po’, poi per chiedermi di saltare il muretto e andarli a trovare a casa. C’erano famiglie da quella parte, bambini da quella parte, c’erano scuole, e volevano conoscermi. Ascoltare e magari giocare con me e imparare quando si può, a entrare nella pancia della parola. Dissi di sì la prima volta quasi dieci anni fa. Prima di quel salto pativo, ma anche cercavo, la solitudine. Ore e ore sequestrata da me stessa e aveva finito per non bastarmi più. Anche le telefonate mi davano fastidio. Cresceva in me una pianta, rapidamente, e toglieva spazio al resto, e al cielo anche. Non so chiamarla per nome. So come è fatta. Di tante ore da sola. E più ero sola più volevo essere sola. Il silenzio è lo spazio fisico che forse amo di più di ogni altro ed è quello che nei momenti di grazia ho consegnato all’opera, nell’opera. Forse non era la solitudine ma il silenzio che cercavo di difendere così tanto. Solo che quando ce n’è troppo, quando dilaga, lo smarrisci lo perdi nella solitudine e non ricordi più la sua qualità essenziale la sua necessità: che il silenzio è una condizione interiore prima di essere esteriore e che è tanto importante perché lì, nel silenzio, si manifesta e mantiene viva la domanda che ci nutre. E’ sempre la stessa. Chi sono, perché sono qui.
Il paradosso è che la domanda, quella domanda, nasce dall’incontro col mondo. Se io sto ferma e chiusa in bozzolo che domande più posso farmi? Ripeto me stessa come si ripete la melodia nel disco di vinile che si è scheggiato. Così sono andata, ho saltato il muretto della solitudine della mia condizione di artista e sono andata fuori dal mio spazio, perché avevo bisogno del mondo, cioè di innamorarmi. Di entrare in contatto con l’altro con ciò che non conosco e che non mi conosce. Per uscire fuori dalla mia orbita. Volevo cadere di nuovo, e farmi male. Perché in quell’ahia c’è che sei vivo e cerchi un equilibrio che non hai più se mai l’ho avuto. Così ho messo in fila in questi anni ultimi la mia collezione di ahia. Una collezione molto disordinata come si conviene a una raccolta così intima.
Sono caduta di proposito. Come quando ho fatto Cappuccetto, arrivandoci attraverso un libro di Munari, con sessanta bambini, nel 2004. E’ stato bellissimo ci siamo fatti male in tanti ma eravamo felici con i nostri ginocchi sbucciati. Poi quando ho cominciato a collaborare con Valentina e abbiamo avviato il Presidio. Sono tornata lettore, nel mio rango originario. Abbiamo prima fatto Compagine, otto incontri a rimurginare sui tic sulle ritualità sulle abitudini legate alla lettura e poi, come se si fosse aperta una diga, è seguito con il Presidio un flusso di attività che non si è più interrotto. C’è stato Verso il largo, poi Pagina 58 emozionantissima, i cui echi incontriamo ancora e mi fanno inciampare, cadere ma con un ahia di felicità. E tutte le attività collaterali che leghiamo a un progetto, come gli anelli di Giove che fanno bello il pianeta e ricco di qualcosa di unico. Fino a ieri, fino a Etty, alla giornata della memoria; attraversando di nuovo la strada per andare a lavorare nella scuola elementare su progetti che partono sempre dal libro e dall’amore per la parola. A quell’amore, tutto quello che faccio da sola e con gli altri, torno. Anche oggi qui a Fasano insieme a voi, qui torno. Facendomi male anche oggi, collezionando anche oggi il mio ahia che consegna e certifica a me stessa che sono viva in un compito ancora una volta nuovo. Raccontare a un pubblico di ragazze di ragazzi, e non da sola ma insieme a Claudio Luca e Valentina che ci faccio io qui, con loro e con voi. Lo vorrei sapere pure io, e proprio perché lo vorrei sapere ho accettato di venire. E’ che da molti anni a questa parte quello che vedo, che anticipo con la testa, che immagino, lo condivido e lo innaffio insieme agli altri. Sono pensieri che mi stupiscono proprio perché la loro scala di realizzazione non è più quella che si misura in metri sul mio tavolo da disegno nel mio studio, ma quella che si misura in chilometri su altri tavoli fuori dal mio studio; dentro una scala di realizzazione che include un gruppo di persone e da quelle, se e quando riusciamo, una società, gruppi, contesti. Adesso quando sbaglio mi faccio male davvero. La mia collezione di ahia si è arricchita di un dolore che prima non conoscevo. Valeva la pena? Valeva la pena diventare più consapevoli se più complessa, più tormentata, più impegnativa si è fatta la mia vita? Non rispondo ma con le parole predispongo il silenzio che come un paracadute fa atterrare dolcemente questa domanda: senza farsi male.
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