Nello schermo bianco, piccolo del mio cellulare, un'amica che so donna coraggiosa, mi scrive una domanda che sta ferma pur galleggiando sul punto interrogativo che la chiude.
Come si fa ad essere felici?
Non ci provo neanche a rispondere. Io non ho i titoli.
Per non cadere nel vuoto suscitato da questa domanda così enorme in questo schermo così piccolo, io cerco appigli durante la caduta.
Come quella storia zen di quello che sta aggrappato nel baratro e vede una fragola là dove tiene le mani, su quello spuntone, e se la mangia. Allo stesso modo, io, stamattina.
Mi viene da dire: affrontando la difficoltà, non voltandole le spalle.
Affrontandola anche se hai paura di non poterlo fare perché tutto il tuo corpo ti dice che stai male. E allora l’affronto con il corpo che sta male.
Mi viene da dire: continuando a guardare il cielo dove ci sono delle nuvole così belle che cambiano colore soprattutto in alcune ore di trasloco, quelle da un giorno all’altro.
Stando con la testa nell’oggi. A questo tempo qui, in cui chiedo a me stessa di mettere solo un passo in avanti senza cadere. Mettendo i piedi dove sta la mia pista. Senza chiedermi quanto quella pista è solida quanto è larga, quanto riesce a reggermi. Tutto il catalogo dei se lo lascio nella tasca dei pantaloni di mia madre. Quelli che portava quando aveva quarant’anni e usciva di casa, felice, perché doveva andare a scuola a insegnare. Era una scuola media del centro della città di Bari, la Ferri, e mia madre era orgogliosa di quella occasione personale. Che non era solo professionale ma anche sociale e di piccola distrazione. Andando da casa, al lavoro, noi a Bari abbiamo abitato in una cintura periferica, si vedeva i negozi e si distraeva un po’ da quelli che già erano i grandi spettri della sua e della nostra vita familiare. Chissà perché poi cambiò scuola, era il 1970, lei aveva quarantasei anni, era giovane e bellissima, e solissima dentro, e si avvicinò a casa. Era una scuola tanto vicina a casa, cinquecento passi, e lei cominciò piano a morire dentro e a non opporre più ai tanti problemi della sua vita un piccolo bisogno che era tutto suo, che solo a lei apparteva, a nessun altro. E mise, consegnò la sua vita, tutta intera alla famiglia a cui lei non apparteneva se non nel legame, terribile, di una sconfitta.
Forse questo dobbiamo accertarci di fare. Di riservare uno spazio a noi soli. Qualcosa che ha a che fare con la libertà la dignità il desiderio. Per quanto frivolo, civettuolo, improduttivo esso sia. E’ il giudizio, è la morale, è qualcuno che ci portiamo dietro a inquinarci con le sue sentenze ciò che facciamo diciamo viviamo, a toglierci la felicità. Io, ma solo e proprio io, che penso che voglio; chi sono? Senza preoccuparci di rispondere nemmeno alla domanda: perché. A volte le cose le dobbiamo prima vivere per poi saper dire perché.
27 gennaio 2012
Equilibrista sul filo di parole
E' in vendita
77 X 57
2010
Nessun commento:
Posta un commento