Sull’altopiano di Serrisi in provincia di Crotone, qualche giorno fa. La neve nei giorni precedenti aveva coperto ogni cosa, tranne gli alberi. Pini sparsi e soprattutto faggi spogli. Delle scope a testa su. Una trama di dita nude in una immobilità sonora prima ancora che fisica. Il silenzio è la neve. Essa non copre soltanto la superficie del mondo ma anche le sue urgenze passano in secondo piano. Come la terra possa sopravvivere a questa dura prova è per me un mistero affascinante. Al peso del freddo, alla stagionale sepoltura. Fuori solo le povere costruzioni in cemento, l’altalena rossa, le orme di un cane affamato; fuori, la limpidezza del cielo che indossa il suo abito per la sera. Uno smoking di stelle affilate come punte di ghiaccio. Eppure laggiù, lassù, quelle son fornaci. La distanza è tale che non mi consente la giusta esperienza. Meno male che ci sono i libri per questo. E l’età in cui li ho letti; altrimenti sarebbe povero lo sguardo. Anche la neve è utile alla montagna, e forse anche agli uomini. Consente loro un riposo fisico che negli altri mesi dell’anno in quelle difficili condizioni ambientali non è possibile. Lavorare in montagna è certo faticoso per chi, come è accaduto fino ad alcuni decenni fa faceva il boscaiolo, e poi si doveva occupare di trasformare quella legna in carbone, un processo di estrema sapienza, enorme fatica. La civiltà della neve è legata al poco materiale. Ma al molto spirituale. Sarà quella lunga abitudine all’attesa, quel sintonizzarsi al silenzio dei mesi invernali, che il silenzio è una porta da cui passa tutto e nel passaggio si arricchisce di qualcosa mentre ne perde tante altre, perché tutto non si può avere. Sarà che in questa estrema relazione, gli uomini gli alberi gli animali le stelle il fumo che esce dai camini, condividono la stessa condizione, la pazienza; sarà infine per la bellezza elargita in fiocchi morbidi larghi bianchi leggeri come piume che si avventano su ogni cosa e li coprono di nulla. E’ l’esperienza della terribile potenza del mondo data in forma apparentemente magica ingenua inoffensiva. Se non fosse per quel freddo che ogni fiocco porta con sé e che ricorda che stai dentro la vita e da quella anche ti devi difendere; da quello che la vita porta come minaccia oltre che, sempre, come opportunità e dono. A te spostare ciò che sta sui due piatti della bilancia in modo che essi siano in equilibrio. Su uno di quei piatti, nei giorni scorsi c’era tanta neve, e così, sull’altro, ho dovuto mettere calore. Quello necessario per sciogliere dentro di me la paura che sempre mi porto appresso. E quando quella si è sciolta ho visto la bufera di neve per ciò che era, togliendo di mezzo tutto quello che mi infastidiva: ho spento dentro di me l’audio acceso al massimo dell’autobus su cui percorrevamo l’altopiano; ho fatto fuori le decine di persone con cui viaggiavo tranne il mite bravissimo autista Rocco, da vera killer professionista; ho lasciato Alvaro in ammirazione davanti a un nintendo ultima generazione di proprietà di un ragazzino tecnologicamente educato, e ho visto. Viaggiando a pochi chilometri all’ora, lungo una strada stretta e bianca, ho visto ciò che la prima volta avevo visto nelle pagine di Guerra e pace. Perché Tolstoj mi ha fatto vedere, lui per primo, la neve. Me l’ha descritta, me l’ha consegnata intatta, terribile e luminosa, legandola al destino di Natasha che in quelle pagine era giovane e innamorata del principe Andrej. E ancora cantava con la sua bellissima voce. In quelle pagine si spostava con i suoi fratelli sulla slitta, era sera e una torcia era accesa di fianco al cocchiere, e la luna brillava sulla vasta distesa di neve che poteva essere a quel punto anche quella della luna. E io in quelle ore, anni fa, ero immersa in quello spazio: in una incommensurabile bellezza che è ancora lì. Intatta, nel libro. Ecco come è stato che ho incontrato, in un pullman dell’italviaggi dentro una cavaiola che solo una sintonizzazione radio casuale può determinare, il conte Lev Tolstoj in persona, sì lo scrittore. Si è seduto a fianco a me e con me ha guardato turbinare la neve sull’altopiano di Serrisi, e in quel momento mi sono ancorata, daccapo, al suo grande romanzo. Ho agganciato il moschettone alla corda e mi sono arrampicata, daccapo, su quelle notti in bianco mentre leggevo il libro e risalivo controcorrente le pagine e mi facevo spazio largo fra le vite di quelle persone che ho imparato a conoscere, qualcuna ad amare, qualche anno fa e ancora daccapo, ieri. Ho riconosciuto la neve che Tolstoj mi ha descritto. Essa veniva dal cielo e veniva dal libro, da anni indietro. E ancora verso di me cade. Adesso pure, che attraverso la scrittura la prendo fra le mani e so che il mio calore la scioglie. La trasforma, ancora daccapo, in una pagina scritta. Un faggeto di lettere immerso nella neve della pagina dove ti sei avventurato. Troverò le tue orme domani. E saprò di essermi incontrata proprio qui e proprio con te. Al limitare del mio mondo. Al confine fra quegli anni e il presente. Sulla soglia fra il libro della nostra vita e quello che un'amica mi invitò a comprare. E tutto sta insieme se decidiamo di farne un pupazzo: una carota, un cappello, un nastro di fortuna e una tasca di neve dove mettere una penna, e un libro. Lo chiudo in una bella busta di plastica dove sta disegnato un pino e un indirizzo di Camigliatello; servirà a custodire il libro in modo che non si bagni. Così se passi dalla foresteria della Madonna Pellegrina a Serrisi quest'estate, aprila quella busta che al disgelo sarà finita a terra. Dentro c'è uno dei libri più belli una delle storie più grandi che ho mai letto a letto. Nelle mie notti bianche.
notti in bianco
dittico, 2010
56 x 38 ciascuna tavola
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