Sei nato un anno prima di me.
Non hai visto la caduta del muro di Berlino.
Un attore, Libero De Rienzo, ha guidato la tua macchina, ventitre anni dopo la tua morte.
Perché c’è qualcuno che guarda gli eroi?
Ma poi tu non eri un eroe: solo un giornalista-giornalista.
Nel film parli come se fossi un poco buffo, un poco cartone animato: hai una voce strana; chissà come era la tua voce; magari ci sta una registrazione sul sito che i tuoi familiari ti hanno dedicato.
Nella foto finale, quella che chiude il film, una tua immagine: la mano destra copre parte del viso, la guancia è coperta da una crema bianca su cui sta disegnato il simbolo della pace: non lo vedevo dall’anno scorso; da quando vidi il film che ti ha dedicato Marco Risi da Sergio. Un film che abbiamo visto perché per caso intercettammo una intervista che Serena Dandini fece a Risi sul suo divano rosso, un fiammifero di pensieri che si accende di notte. E Risi fu così intimo partecipe colto, con una timidezza piena di pudore nonostante il mezzo che ha veicolato le sue parole, la tivù.
Ieri invece, per il cineforum organizzato da Libera, ci ho portato Amalia, mia figlia, quattordici anni, prima liceo, con la speranza che possa imparare. Imparare? Che sciocchezza. Quello per lei è stato un film, come ne ha visti tanti, uno spettacolo. E’ entrata con i Ritz e con la Coca Cola e io mi vergognavo.
Scusami Giancarlo, non avrei dovuto portarla senza prima averla fatta cenare. Ma noi vogliamo ottimizzare tutto, fare tutto. Come se dalla quantità nascesse la qualità e qui, qui, ci sbagliamo.
E poi, e poi, non da te, che sei stato diciamolo pure usato da quelli che il loro lavoro non lo hanno saputo e voluto fare: lo Stato, i magistrati, i poliziotti, i giornalisti impiegati e le persone perbene di Torre Annunziata, quelle dieci o cento, non da te capro espiatorio insieme ad altre centinaia di persone che mia figlia deve imparare la legalità, o meglio, lo stare al mondo praticando la passione la cura la giustizia per e nel proprio lavoro, ma da me, da suo padre; e poi in una scala più piccola ma ugualmente importante, dagli adulti, tutti, che la circondano, pure da te che leggi questa lista; noi adulti che ogni giorno nel pulviscolo di pratiche e di scelte quotidiane, decine, una tessitura minuta di comportamenti, costruiamo siamo edifichiamo la Società e soprattutto lo Stato. Che quello è come la tela di Penelope. Ognuno ne è responsabile e ognuno lo tesse, e rattoppa, ogni giorno. E se c’è qualcuno come Giancarlo morto a 26 anni perché ucciso dalla mafia vuol dire che tutti gli altri intorno a lui non si aspettano niente, desiderano niente, cercano niente. Io avevo 24 anni quando nel 1985 Giancarlo Siani fu ucciso a Napoli sotto casa sua, prima della doccia e della pizza, per gli articoli che aveva scritto da giornalista abusivo, senza contratto, da quella stanza di Torre Annunziata che la sua sola presenza trasformò in Redazione. Avevo 24 anni e non ne seppi niente allora, studiavo ma non leggevo i giornali: una vecchia, terribile malattia di cui ancora soffro. Uno di quei non gesti quotidiani che fanno la differenza che rappresentano o meno per Amalia un modello possibile di cittadinanza, di appartenenza al mondo.
Penelope aspetta Ulisse e io chi aspetto; anzi: che aspetto ancora per mettermi al telaio?
Teresa Ciulli
p.s. ricordati di regalare ad Amalia a Natale il disco di Vasco Rossi. C’è una canzone: l’ultima sentita da Giancarlo.
martedì 24 novembre 2009
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