venerdì 13 gennaio 2012
in vendita
oggi sogno
2002
38x74
Proposta di lavoro
Mi chiamo Teresa Ciulli. Sono un’artista visiva. Ciononostante utilizzo la parola come parte dell’opera e come vera cornice che sta intorno ad ogni mia opera. Essa non è mai veramente di legno, ma solo fatta di parole. Quelle che uso per spiegare a me stessa, prima ancora che agli altri dove, quel fare intorno al tavolo stamattina, mi ha portato. Portato a scoprire di me; degli altri. Del mondo che ho vicino. Ho una formazione artistica, compiuta in un liceo, a Bari. E una universitaria in Filosofia, percorso di studi che ho sempre fatto a Bari e che è stato per me il punto di inizio della mia storia adulta. La mia tesi di laurea fu su Roland Barthes, un critico letterario; un uomo che ha incarnato la conoscenza nella sua vita intera; o forse il contrario, la sua vita personale nella conoscenza. Poi, nel tempo, altri stimoli altri incontri e un trasferimento a Lecce, dove vivo da oltre vent’anni, hanno contribuito a fare accadere, per caso e per necessità, questa mia singolare esperienza al limite di due saperi: quello letterario e quello grafico visivo. La mia vita le mie dita la mia persona, li tengono insieme con fortune alterne. Perché gli eventi che ci accadono e che noi con il nostro comportamento contribuiamo a fare accadere, creano ogni volta una terreno di coltura diverso a questo mio doppio esistere, narrativo e visivo, che si gioca sempre sulla stessa linea di confine: l’arte come strumento di comunicazione e di scambio con il mondo.
All’amore per la letteratura ho dedicato le mie prime mostre, Per Marco Polo, per Kublai Kan, per Italo Calvino e per me, e poi Segna/Libri e intorno a concetti filosofici ho sviluppato quelle successive tematizzando l’esperienza del tempo, l’idea della fragilità, l’esperienza della maternità, nonchè il mio bisogno di parole per stare al mondo. L’ultima mostra nel 2009, è durata un giorno solo: ho appeso, con l’aiuto di Valentina, i miei quadri dentro un giardino del seicento nel centro storico di Lecce. Quei quadri sospesi nell’agrumeto mi appaiono adesso rivelandomi il vero punto di forza del mio lavoro: la dimensione poetica. Cerco la poesia. E il dolore più grande nella vita e nelle relazioni che la nostra vita custodisce e porta e protegge e pure stimola, è tutto il tempo in cui non l’ho trovata. Perché essa è soprattutto dentro di me, non fuori. E se ho vissuto male, essa non può più manifestarsi. Si è nascosta. Si protegge da me stessa. E’ andata in vacanza, sperando che al suo ritorno io abbia fatto quelle modifiche necessarie perché lei possa ritrovarsi a casa. Ma ogni volta che torna è sempre peggio. Forse oggi, se dovesse tornare si troverebbe più a suo agio. Casa, casa interna dico, è tutta sottosopra, ci sono stati i ladri pochi giorni fa e hanno portato via qualcosa che ancora non riesco a individuare, è tutto sottosopra. Forse non hanno portato via niente, ma io non lo so perché è tutto, tutto in disordine. La poesia nel disordine ci sta bene. Respira, vive, ascolta ogni più piccolo rumore e lo fa diventare traccia di qualcosa che serve a ricominciare a mettere in ordine. La scrittura è il modo con cui noi mettiamo in ordine la nostra esperienza; come la pratica dell’arte. Esse ci servono a tradurre ciò che viviamo in una lingua comprensibile a noi stessi e quindi anche agli altri. E tradurre ci serve a capire e quindi a diventare più sapienti. Nella capacità di stare e di condividere con gli altri le grandi prove della vita: il dolore della morte la paura della malattia, le difficoltà materiali; ma anche di condividere le grandi gioie, l’amore: il sentimento di complicità di aiuto collaborazione sostegno e cura, il desiderio di crescere insieme a qualcun altro. Ecco perché ci serve avere un linguaggio, qualunque esso sia, e praticarlo. Perché esso ci serve a vivere tutto di questa nostra esistenza, anche le domande da fare a dio. Le domande cioè da fare a quella parte di noi che proviene da un mistero e a cui essa un giorno ritornerà.
Questo il mio ritratto oggi: mentre metto a posto una casa tutta sottosopra e mentre piano piano prendo in mano ogni singolo vecchio oggetto che mi sembra scampato da un naufragio e lo vedo con un occhio diverso. Quello dell’oggi. Del solo momento presente. E mi sembra bellissimo perché io riesco a vederlo come non l’avevo visto mai impaludato come stava nelle sue abitudini e nella sua pigrizia rispetto al tempo; e io, sopratutto ai suoi occhi, a quelli dell’oggetto, sono bellissima. Perché sono viva adesso.
Un oggetto che mi sta intorno in questi giorni come una presenza che emana solo presente, è un libro. A quello voglio fare riferimento per immaginare un Pon sulla lettura e scrittura creativa. E’ David Copperfield di Charles Dickens. L’ultimo bellissimo libro che ho letto. Apparteneva a un’era fa, quando la mia casa interiore era apparentemente in ordine. Ma esso, come è potere di tutte le cose che hanno una verità o più d’una, è un potente giacimento di illuminazioni di azioni creative; di possibili altri incipit. Come se un libro, e questo in particolare, che è bellissimo, contenesse dentro di sé infinite quantità di specchi. E tu puoi in quelli vedere passare i personaggi, vederli muoversi, sistemarsi prima di entrare in scena e puoi anche tu a tua volta specchiarti. Sovrapporre la tua immagine sulla loro, approfittando del passaggio di una frase, del dettaglio di un vestito o di un oggetto o addirittura, di una nuvola rimasta lì. Questo mi consentirebbe, lo stesso libro dico, anche di affrontare il percorso di 30 ore dedicato a Fabricalibro, una attività didattica finalizzata alla costruzione di libri fatti a mano. Ogni libro ne contiene altri. E io certo partirei dalla lettura ad alta voce del romanzo che potrei cominciare a leggere dall’inizio, per poi lasciare ai bambini alla fine del doppio percorso didattico, fra qualche mese, il desiderio di continuare a leggerlo ognuno per suo conto, fosse solo per sapere come va a finire, come cresce questo nostro amico. In aula il mio compito sarebbe quello di approdare per passaggi successivi, alla costruzione di qualcosa che sta nel libro da centosessantuno anni e ci resterà per altri secoli. Fino a quando ci sarà un lettore disposto a leggere. Ad ascoltare. Ascoltare infatti è un’azione attiva, mai passiva. Essa ci mette in moto e mette in moto altro. E noi di quello abbiamo bisogno per esistere. Nutrirci. Non solo di cibo anzi, forse il cibo è la cosa di cui qui, in Occidente abbiamo meno necessità, tranne in questi difficili tempi. Abbiamo bisogno di bellezza. Di giustizia. Di amore. Niente altro ci fa vivere. E molto si può trovare in un libro e molto nella relazione educativa e/o auto educativa che ciascuno fa scattare con quello e tramite quello, fra sè e gli altri. Perché, ecco, degli altri abbiamo bisogno. Per scambiare per donare per mischiarci alle loro vite formando un nuovo ibrido, una nuova realtà una nuova dimensione del tempo. Quella dimensione ha un nome solo, si chiama speranza. Ancora, ancora, ancora, ancora, posso imparare. Ancora, crescere. Ancora diventare la persona migliore, la bella persona, essere per me stessa un dono. Perché la forza d’animo, come la poesia, non sta mai fuori di noi. Piuttosto sta nascosta nel luogo più inaccessibile di tutti: davanti a te.
13 gennaio 2012, Lecce
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teresa ciulli...ed è subito poesia emozione altrove.
RispondiEliminaTeresa...semina stelle luminose defilate dolenti tenere antiche.
Grazie,Teresa!
Con affetto
Anna Casole
gtazie teresa è vero abbiamo bisogno degli altri...specialmente di poeti...come te.
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