Questa settimana.
Uccidono all’uscita del campo profughi di Jenin, in Palestina, l’attore e regista Julius Mer-Khamir, madre israeliana, padre palestinese. Noto per aver fatto un film qualche anno fa su alcuni bambini che anni prima avevano fatto parte di un gruppo teatrale messo su da sua madre Arna. Lo hanno ucciso i palestinesi stessi, convinti fosse una spia del governo israeliano o i servizi israeliani, convinti che fosse una spia dei palestinesi? Certo hanno ucciso una voce umana che ne rendeva possibili altre, in condizioni di vita miserabili.
Nel frattempo continua la fuga di notizie sulla fuga radioattiva di cesio e iodio dalla centrale atomica di Fukushima: tre giorni fa sul giornale scrivono che nel mare ci sono concentrazione sette milioni di volte superiori al livello di normalità che quelle due sostanze devono registrare. Sette milioni di volte, penso, è la fine del mondo. L’intossicazione dei pesci e da lì a tutta la catena alimentare. La morte del mondo. E’ un lutto di immense proporzioni. E’ la nostra morte annunciata, ma non mi sembra che sui giornali ci sia cenno agli effetti di questa catastrofe: perché sono io che mi sto inutilmente allarmando. Ma io devo aver studiato le relazioni fra i sistemi viventi, sono nessi certi: e dunque e allora?
Mentre me ne sto sbigottita anzi, tramortita, leggo ieri sul giornale di avanti ieri, perché la televisione non la vedo, del barcone affondato fra Malta e Lampedusa, 250 morti fra somali ed eritrei. Il barcone si rovescia, nel mare in cattive condizioni, quando nella notte viene avvicinato, nel buio, da una motovedetta italiana a fari spenti. La gente si spaventa si sposta, il barcone si rovescia. Un altro cumulo di vite pagate alla guerra. Che se non è quella per il petrolio è quella per lo sfruttamento ingiusto delle risorse, o quella che oggi chiede il rimborso di una storia coloniale che dura, mutando i modi i nomi, e le forme di governo, dalla scoperta dell’America, nel 1492.
Come se tutto questo non fosse già oltre ogni ragionevole portata del pensiero, ascolto per radio stamattina, prima un professore di Napoli che si lamenta della puzza costante dell’immondizia bruciata per strada che è pari per disgusto a quella dell’immondizia non bruciata, che marcisce in montagne fra le strade, e poi in un’altra trasmissione, stamattina avevo voglia di farmi del male, una intervista a tre intellettuali iraniani. Parlano della durezza del regime, della tragica dittatura a cui sono costretti in nome di una strumentale interpretazione della fede della religione, migliaia di donne e di uomini. Della pericolosità di questo regime che ha sicari in ogni parte del mondo per cui anche la protesta, altrove dall’Iran, è assai pericolosa. Loro parlano e so con certezza che la nostra indifferenza, la loro solitudine, è in fondo la sconfitta della loro causa. Ci sono cose da soli non possono essere affrontate. Ma la democrazia in fondo a questa solitudine condanna. Che chi ha il privilegio di goderne, anche solo, un pochissimo, un frammento, qua se ne sta tutto raggomitolato nel suo bozzolo di benessere, per quanto piccolo e modesto, e precario esso sia. La democrazia ha costruito una classe di umanità, che si fa i fatti suoi. E così facendo condanna tutto il resto dell’umanità, e anche se stesso -è solo questione di tempo- all’estinzione.
Come si fa a non vedere una così grossa? Forse proprio perché è grossa. Un uomo dell’Universo non vede nulla perché in esso è immerso. Vede dell’Universo, niente. La poltrona di vimini su cui appoggio mentre scrivo qualcosa che l’universo non può raggiungere. La cassetta postale di dio chissà in che pianeta, fuori dal sistema solare, fuori dalla via Lattea, si trova.
Eppure io che faccio? Continuo a intossicarmi di notizie che non posso cambiare, ed è questa la ragione più grande della tossicità di ciò che accade, oppure continuo ad ascoltare a leggere a scrivere? Faccio un aeroplano di carta con questo foglio, adesso. E anche, come ieri sera, decido di tornare apposta sui miei passi per mettere nel cappello di un uomo di colore, alto, magro, giovane, che se ne stava nella penombra di un parcheggio della città, a mettere cinque euro. Non erano niente per me, ma lui si è piegato fino a terra per ringraziarmi. E io da quel momento non ho camminato più, ho strisciato. Da così piegata scrivo queste righe. Se le leggi, se lo ritieni, fanne un aeroplano pure tu.
sabato 9 aprile 2011
Shuttle di carta
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