a Vittoria Facchini
La più bella lettera d’amore che mai sia stata scritta, sta, fatta tutta a pezzettini, sotto l’albero di melograno, entrando a destra nello spazio quadrato del mio giardino. Ieri ho distrutto, una ad una, le sue indimenticabili pagine. L’amico Ruggiero, il giorno prima mi aveva consigliato di spruzzare sopra la vernice trasparente, in modo da chiuderle in una pellicola protettiva che forse avrebbe fermato il processo di autodistruzione che su quelle pagine era già cominciato, il giorno stesso in cui Vittoria me le ha scritte, disegnandole, una per una. La mia lettera d’amore, la più bella mai scritta, forse proprio perché non potevo conservarla, è stata scritta su dodici uova. Tatuata sui gusci. Ogni uovo, una pagina con una rima e un disegno: per me.
Vittoria le aveva confezionate lasciandole dentro i loro due involucri, rigidi come gusci di tartarughe. E scritta, anche su quelli, una lettera divisa in due parti: parole di un fiume che si è fatto strada fin qui, rompendo gli argini. Che l’affetto quello fa, rompe e trascina via ogni barriera. Ogni ostacolo. Vittoria mi ha fatto dono della sua unica e sola capacità di intervenire su ogni dove su ogni più piccolo indizio di legame, per farlo fiorire daccapo. Anzi, per farlo nascere per la prima volta. La aspettavo nei giorni scorsi Vittoria, con il desiderio di chi aspetta qualcuno con cui condivide un grande segreto, l’accesso all’arte, la sua chiave fra le mani, l’aspettavo la domenica precedente all’inaugurazione della mia mostra, qui, nello studio dove ho trascorso gli ultimi undici anni, dodici, della mia difficile condizione personale. Me l’aveva solennemente promesso. Ma le solenni promesse di Vittoria, anche quello è un aspetto che condivido con lei, sono barchette in un mare assai volubile. Perché decine di variabili si muovono, sotto e sopra quello scenario. Variabili che noi stesse mettiamo in atto senza volerlo. Come tutti, forse. Tranne proprio qualcuno che invece tiene molto in considerazione la sua parola, prendendola così tanto sul serio da farsene ammazzare; o ammazzare a sua volta. Sono tutti dolorosi paradossi che producono giustizia solo volta per volta, esaminando la cosa, la circostanza in sé; ogni volta senza pre-giudizio. Io e Vittoria con le parole un po’ ci giochiamo, cercando forse dentro di loro, nella loro pancia nel loro segreto, un ingresso inedito, non quello normale. E allora l'agiamo, la pronunciamo mantenendo uno sguardo divergente su di essa: un alito di vento appena turbolento, l’apparizione di una grande nave lungo la rotta della nostra navigazione, o semplicemente il colore, indecente per la sua bellezza, di una nuvola, già ci porta in un’altra direzione. Perchè noi siamo radar di segni tanto elementari che gli altri li scambiano per alito di vento, per bastimento, per nuvola, e invece. E invece Vittoria non venne.
Un pasticcio linguistico un inconveniente appena trascurato di un appuntamento buttato lì, all’improvviso la incastrò. E io rimasi senza poter issare quella bandiera sulla mia arca. Altre cose poi accaddero. Perché il tempo mi si mosse fra le mani per issare un’altra bandiera, certo era completamente diversa, su questo momento della vita: il mio studio, la mia arca fermata lungo la rotta in tempesta e diventata porto. Luogo di incontri di scambi di traduzioni. Di crescita. Perché da se stessi si impara sempre; figurati dagli altri. La mostra l’ho tenuta aperta anche la settimana dopo, scrissi una mail, Vittoria mi rispose. Era in partenza per Bologna ma sarebbe tornata in tempo per quel fine settimana. Le scrissi che l’attendevo con le uova in petto. Una bellissima espressione che mi ha insegnato Vito Clinca, una persona importante nella mia storia adulta. A Vittoria piacque quell’espressione: l’attesa come momento colmo di immensa emozione e anche concentrazione, delicatezza. Un’assenza che chi attende riempie col suo desiderio dell’altro. Vittoria questa volta la sua l’ha mantenuta. E’ arrivata domenica pomeriggio recando due involucri di carta stracolmi di cuori. Li ho aperti due giorni dopo: si è spalancata davanti a me una bellezza travolgente. Sopra le custodie di plastica due lettere; due custodie di calligrafia a chiudere in due confezioni , sei pagine uovo per parte: dodici pensieri dodici immagini che mi hanno abbracciato accarezzato innamorato tenuto forte con una presa da carro attrezzi, coccolato, incantato portato: dentro di me. Su un tappeto volante di meravigliosi disegni, matita e pastelli, e ogni disegno-uovo, aveva la sua corrispettiva rima-uovo. Una frase per me. Una poesia di nome Teresa: dodici strofe, dodici indimenticabili illustrazioni.
La mia lettera d’amore ha cominciato a puzzare qualche giorno dopo. Nell’interno delle uova si era avviato il suo processo di decomposizione. Erano nella bellezza diventate inavvicinabili, anche per me. Le ho fotografate, ma non ero contenta. Meritavano di essere conservate nel modo più giusto; nella memoria. La mia lettera, la più dirompente lettera d’amore mai ricevuta, dovevo conservarla per sempre valorizzando proprio la sua immensa fragilità. Ieri, dopo mezzogiorno sono scesa in giardino e mi sono fatta strada in basso con l’aiuto di una paletta verso le radici dell’albero di melograno, ho rotto quei gusci li ho separati dalla parte degradata, la mamma di Vittoria li aveva bolliti, fatti sodi, e li ho sistemati in quel nido di terra. Prima però me le sono guardate le mie pagine, una ad una, di n-uovo, per l’ennesima volta in questi giorni in cui non sono riuscita a staccarmi dalla loro potenza. Le loro parole me lo sono fatte scendere nel cuore come si prende a grandi sorsate la medicina che ti salverà la vita.
Poi ho coperto tutto con foglie e terra. Ho innaffiato. Me stessa. Con l’amore che da un altro mi viene. Che l’amore quello, il suo dono, lo riceviamo solo dopo che noi tiriamo fuori quello che abbiamo per noi stessi. Un amore tormentato il mio per me, ma è pur sempre amore. Non sono facili gli amori mai. Non fanno eccezioni quelli che dobbiamo nutrire per noi stessi. Cara Vittoria, la tua lettera vivrà per sempre. Si mischierà in questi giorni alla terra e il melograno se ne nutrirà. Quando raccoglierò i frutti, in autunno, ci troverò, scritte, su quei chicchi rossi, il tuo grande amore. La tua potenza visionaria il tuo passionale coraggio e la dolorosa irruenza che ci è d’inciampo. La fame che non si placa se non nel gesto: nel momento solenne in cui facciamo uscire un pulcino da un uovo che nessun altro vede oppure un disegno, da un melograno.
martedì 5 aprile 2012, Lecce
caffè in giardino, 1999
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E chi non vorrebbe una Vittoria così!
RispondiEliminaChe tu possa vincere giorno dopo giorno. Magari ci mostrerai le foto.
Buoni germogli... buona rinascita. A presto. MR